Ho seguito con interesse il dibattito sul tema della mancata riapertura della villa romana delle Grotte a Portoferraio. Mi sono, tuttavia, astenuto dall’intervenire, rendendomi conto della complessità della situazione e perché la questione è, ormai, quasi esclusivamente politica e molto poco culturale. Su questo secondo aspetto intendo, in ogni modo e per quel che può valere, dire la mia, procedendo per punti.
1. Il luogo. Si deve alla presenza di una complicata stratificazione storica e archeologica e alla suggestione esercitata dal luogo stesso sull’immaginario della popolazione locale se il promontorio delle Grotte si è, fin qui, conservato. Ma l’approccio di tipo puntuale porta molto poco lontano. Inutile conservare al meglio pochi ettari o poche centinaia di metri quadrati se, poi, intorno, si scatenano caos urbanistico e devastazione paesaggistica. E’ assolutamente preferibile un approccio al contesto. Il contesto, nel caso in questione, non mi stancherò di ripeterlo, è la rada di Portoferraio, dal Forte Stella alla Torre del Martello alle Saline, a Bagnaia, passando, appunto per Le Grotte. E’ lo stesso approccio seguito, giustamente, dal progetto “Il Cammino della Rada”, promosso da Italia Nostra, Legambiente ed altri (https://sites.google.com/site/camminodellarada/). Bisogna pensare a un tessuto paesaggistico coerente ma scandito da straordinarie emergenze ambientali (le saline), urbanistiche (Cosmopoli), geologiche (la collina del Lazzeretto), archeologiche (l’ultimo edificio superstite degli altiforni, San Giovanni, Le Grotte…). Se è vero che ciascuna di queste emergenze fa storia a sé, raccontando una sua propria storia, è altrettanto vero che i diversi racconti, ricomposti in un più ampio, coerente e affascinante romanzo, vanno a costituire un valore aggiunto. Il concetto dal quale partire, dunque, è quello di un parco della rada di Portoferraio, estensibile prima all’isola d’Elba e poi all’Arcipelago nel suo insieme.
2. Progettualità. Il nostro ragionamento non può e non deve ridursi ai soli nodi di un cancello da aprire, dell’erba da tagliare e della messa in sicurezza dei resti e dei visitatori. L’esperienza di Archeo Color ha mostrato molto chiaramente come siano indispensabili competenze, professionalità e motivazioni che sono quelle tipiche del giovane archeologo moderno. La conoscenza storico-archeologica del sito deve necessariamente coniugarsi con le capacità a fare impresa culturale e con la consapevolezza del ruolo pubblico e sociale dello storico e dell’archeologo, con la sua bravura nel trasformare aree archeologiche interessanti in contenitori di narrazioni. Ma cose di questo genere sanno e possono farle i giovani di 30-35 anni che siano, oltre che bravi archeologi del nostro tempo, anche nativi digitali! E’ inutile andare a cercare figure di questo tipo nella mia generazione o, addirittura, in quella ancora precedente! Si tratta di persone capaci di intessere un dialogo continuo e sinergico con altri mondi, apparentemente lontani: la scuola, il mondo delle imprese, il mondo delle associazioni impegnate nei settori della cultura e dell’ambiente, il governo del turismo.
3. Dobbiamo consolidare, accanto alla cultura dell’evento, con la sua fisionomia, i suoi caratteri, le sue problematiche, anche una cultura dei paesaggi, dei luoghi e dei contesti che funzionano per sempre. Sono questi che costituiscono l’ossatura delle rispettive identità culturali e che rappresentano i punti solidi ai quali ancorare immagini positive dei luoghi in cui una comunità vive, nei quali essa si riconosce, nei quali identifica il nesso fra i molti passati e il presente, nei quali imposta la costruzione di un futuro possibile. Sono questi che finiscono con l’essere i tramiti attraverso i quali fidelizzare i turisti, luoghi belli ma anche ben tenuti, attraenti e narrativi, dei quali si parla una volta tornati a casa, dei quali si diffonde la conoscenza.
Fin qui le mie generiche considerazioni. Prossimamente cercherò di essere propositivo.
Franco Cambi