Italia Nostra Arcipelago Toscano ha il piacere di condividere il commento della socia, la prof.ssa Maria Giselle Catuogno, su una serata delle Notti dell’Archeologia della Regione Toscana
“Sulle vele della nostalgia. Il ritorno di un poeta romano in Gallia nel 417 d.C. L’Arcipelago Toscano tra pagani, monaci, israeliti” recitava il titolo bello e accattivante scelto dagli organizzatori - Assessorato alla Cultura del Comune di Portoferraio e associazione Archeologia Diffusa, ospiti della Cosimo de’ Medici Srl., con la collaborazione della Fondazione Villa romana delle Grotte e di Italia Nostra Arcipelago Toscano – per la conferenza di Alessandro Fo, professore ordinario di Letteratura latina all’Università di Siena, nella serata di domenica 23 luglio alla Linguella. E davvero l’esperienza è stata all’altezza delle aspettative e anzi superiore. Sì, perché quando si danno un fondale splendido come quello scelto, una nave illuminata che scivola a due passi dall’uditorio, una platea attenta, ma, soprattutto, la sapienza, il linguaggio, la misura, il garbo e la sensibilità poetica del conferenziere, il successo è garantito.
Dopo la bella presentazione di Franco Cambi, al quale siamo profondamente grati di offrire la sua professionalità agli abitanti e agli ospiti dell’Elba, che tanto ama, Fo ha esordito auspicando che un po’ dell’innamoramento che lui prova per Rutilio Namaziano, l’autore del “De reditu suo”, potesse contagiarci. Ebbene, c’è riuscito in pieno, perché il racconto poetico della piccola Odissea di questo praefectus Urbis, gallo di nascita ma romano d’adozione, aristocratico imbevuto di cultura classica, che deve abbandonare il “caput mundi” per recarsi nella sua Gallia Narbonese devastata dai barbari per proteggere i beni aviti, è soffuso di struggente malinconia per la Roma che deve lasciare, quella Roma/amor ormai al declino della sua splendida civiltà, con una classe dirigente allo sbando, devastata solo pochi anni prima dai Visigoti di Alarico, alla quale il prefetto/poeta dedica distici elegiaci tra i più belli dell’intero poemetto:
« O Roma, nessuno, finché vive, potrà dimenticarti... hai riunito popoli diversi in una sola patria, la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi. Offrendo ai vinti il retaggio della tua civiltà, di tutto il mondo diviso hai fatto un'unica città »
E tale stato d’animo, tale “nostalgia” di un mondo che dubita di rivedere, e delle cui mortali ferite è ben consapevole – anche se sentimentalmente ne auspica la resurrezione – così come la sensazione di una imminente catastrofe, non possono lasciarci indifferenti, perché tutti, universalmente, sperimentiamo “il dolore del ritorno”, ossia il desiderio lancinante di luoghi e persone che non appartengono più al nostro orizzonte visivo, e a volte, di fronte ai mali dei nostri tempi, proviamo come lui un presentimento di decadenza prossima ventura.
Con la sua mirabile versione italiana del Reditu, a sua volta opera poetica, Fo ci offre le peregrinazioni per mare, lungo la costa, a causa dell’inagibilità di strade e ponti, di un uomo politico e di un intellettuale che non si rassegna alla fine di un’epoca e, seppure, per vie traverse, non esita a criticare, lui, convintamente pagano, uno degli elementi destruens della Roma amata, ossia il cristianesimo, anche se non lo fa direttamente – la religione cristiana era ormai religione di stato sebbene vi si affiancassero e fossero tollerati culti pagani: l’attacco all’oste esoso di Falesia, israelita, che scatena la sua furia, nasconde in realtà il risentimento verso i cristiani, avvertiti come nemici della civiltà romana classica.
Rutilio deve percorrere la costa tirrenica, dal Lazio su su verso la Provenza, dove è diretto, in una stagione non favorevole, l’autunno inoltrato, quando i venti e le mareggiate si fanno più forti e frequenti: in realtà noi non sappiamo se riuscì ad arrivarvi e dopo quanto tempo, perché il manoscritto si interrompe a Luni, in Toscana, mentre alcuni frammenti ritrovati in tempi recenti accennano a località liguri. Però possiamo conoscere attraverso il suo sguardo attento la realtà di una porzione italiana del quinto secolo: città di provincia saccheggiate dai barbari, semidistrutte e spopolate, ma anche paesi, panorami, isole che attraggono la sua attenzione: la foce invitante dell’Ombrone è rifiutata dai suoi marinai, desiderosi di proseguire il viaggio, e lui è costretto a fare scalo più avanti, in una riva solitaria, perché il sole sta tramontando e il vento è cessato, trascorrendo così la notte sotto tende improvvisate e fiocamente rischiarate dal fuoco dei mirti; la vista dell’Elba gli ispira un inno al ferro, di cui l’isola è ricca, fonte di lavoro e di benessere, all’opposto dell’oro, che abbaglia ma corrompe; le solitudini desolate della Gorgona e della Capraia lo sollecitano a scagliarsi contro i monaci che hanno scelto una vita appartata e di preghiera, perché questi “uomini che fuggono la luce” lui non li capisce, in quanto rappresentano il contrario dei suoi valori: apprezzamento della vita terrena, della natura, socialità come aspetto dominante dell’humanitas; a Falesia [Piombino] si imbatte invece in una chiassosa festa in onore di Osiride, oltre che dell’oste insolente, e in un laghetto silvestre.
La lettura e il commento dei passi ritenuti più poetici e significativi del poemetto da parte del professor Fo hanno insomma tenuta desta l’attenzione e gratificato il pubblico, dimostrando ancora una volta, dopo le positive esperienze delle “Notti dell’archeologia” e delle iniziative presso la Villa delle Grotte, quanto profonda sia la domanda di cultura anche nel nostro territorio, sia da parte degli elbani che degli ospiti estivi, e quanto sia bello condividere conoscenze ed emozioni sotto un cielo stellato, al “tremolar della marina”.
Maria Gisella Catuogno
Italia Nostra Arcipelago Toscano