E' noto il sodalizio tra il poeta, scrittore e drammaturgo gallese Dylan Thomas (Swansea, 27 ottobre 1914 – New York, 9 novembre 1953) e il nostro Luigi Berti (Rio Marina, 1904 – Milano, 1964), critico letterario, poeta, scrittore e traduttore. Se ne è parlato a più riprese, specialmente in occasione del centenario della nascita del primo, tre anni fa. In comune avevano l’amore per la poesia, l’appartenenza a terre di mare e di miniera e un debole per il buon bere. Thomas soggiornò a lungo a Rio Marina e l’apprezzò molto, tanto da meritarsi il grato ricordo dei riesi e una bella targa nel centro storico del paese.
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La poesia appassionata, visionaria, profetica ha costruito la sua fama di ribelle romantico, che, nei numerosi tour, anche americani, recitava personalmente le sue liriche nei caffè e nei cabarets, reintroducendo la modalità classica dell’oralità dei componimenti poetici. Sembra che la sua voce suadente, dall’accento gallese ricco di cadenze musicali, esaltasse ogni verso e conferisse ai readings il carattere di una vibrante teatralità.
Forse conosciamo meno il Thomas narratore per l’infanzia, che personalmente ho scoperto soltanto in queste settimane grazie ad un volumetto delizioso intitolato “Il mio Natale nel Galles”, edito nel 1981 dalla collana il Mangiafuoco di Emme Edizioni, mirabilmente illustrato da Silvana Siclari e tradotto da Giulia Niccolai. Me ne ha fatto dono, attraverso la rubrica "Caccia al libro" di Fahreneith, storica trasmissione di Radio Tre, una gentile signora torinese, Alessandra Zanettini.
La favola può essere ascoltata dalla viva e calda voce del poeta, che ne fece una registrazione per la BBC, attualmente reperibile in CD.
“A Child’s Christmas in the Wales”, questo il titolo originale, racconta della gioiosa infanzia di Dylan, delle sue scorribande con l’amico Jim, “cacciatori della baia di Hudson”, nella loro febbrile fantasia, a scagliare palle di neve contro i gatti “lunghi e flessuosi come giaguari, con dei baffi orribili, soffianti e miagolanti”.
Un tempo lontano, mitico, in cui tutto si confonde:
“Ogni Natale era così uguale all’altro, in quegli anni dietro l’angolo di quella cittadina di mare ora priva di qualsiasi rumore salvo quello di voci lontane che parlano e che a volte risento un attimo prima di addormentarmi, che non riesco mai a ricordarmi se è nevicato per sei giorni e sei notti quando avevo dodici anni o se è nevicato per dodici giorni e dodici notti quando ne avevo sei”.
L’animo poetico di Thomas pervade ogni pagina, la rende vivida dei colori della fantasia:
“Anni e anni fa, quando ero bambino, quando c’erano i lupi nel Galles e uccelli del colore delle sottanine rosse di flanella sfrecciavano oltre le colline che avevano forma d’arpa […] quando cavalcavamo senza sella per le folli e felici colline, nevicava e nevicava. […] La nostra neve non veniva solo giù dal cielo da secchi di intonaco bianco, usciva dalla terra come uno scialle e nuotava e fluiva dalle braccia e le mani e i corpi degli alberi; la neve cresceva nottetempo sui tetti delle case come un muschio puro e bianco come un nonno, si posava minuta sui muri delle case come edera bianca e si posava sul postino, mentre apriva il cancello, come un turbine di stupidi, insensibili, bianchi e strappati auguri di Natale. […] I campanelli che i bimbi sentivano erano dentro di loro. E le campane suonavano la loro novella sulla cittadina bendata, sulla schiuma gelata delle colline di cipria e vaniglia, sul mare che scricchiolava. Sembrava che sotto la mia finestra tutte le chiese rombassero di gioia; e i galli segnavento a Natale facevano chicchirichì sullo steccato del nostro giardino.”
Ma è nella descrizione dei regali che l’immaginazione galoppa, dilata le dimensioni e gli effetti:
“C’erano i Regali Utili: scialli del passato quando si andava in carrozza e che ti sommergevano, e guanti fatti per giganteschi bradipi; sciarpe zebrate fatte di una sostanza simile a una gomma setosa che tirandola, come al tiro alla fune, si allungava fino alle galosce; berretti scozzesi che ti accecavano come i copri-teiere accecano le teiere e cappelli da ussaro in pelle di coniglio e passamontagna per vittime di tribù di cacciatori di teste”; ma più strampalati ancora erano i “Regali Inutili”: “Sacchetti di gelatine umide e multicolori e una bandiera bella ripiegata e un naso di cartapesta e il berretto di un conducente del tram e una macchinetta che forava i biglietti e aveva un campanello che suonava; mai una catapulta; una volta, per sbaglio, sbaglio che nessuno ha mai saputo spiegarsi, una piccola accetta; e un’ochetta di celluloide che faceva, quando la schiacciavi, un suono assolutamente non da ochetta, una specie di muggito miagolante che avrebbe potuto fare un gatto con ambizioni di mucca; e un libro da pitturare nel quale potevo colorare con i colori che volevo l’erba, le piante, il mare e glia animali, e ancora oggi le pecore luminose blu-cielo stanno pascolando l’erba rossa sotto gli uccelli verdi dai becchi arco balenati. Uova sode, caramelle mou, liquirizia e di tutto un po’, croccanti, mandorlati, bomboloni, bestioline di zucchero, marzapane e gallette gallesi per i gallesi.”
Insomma, non manca proprio nulla in questo tenero racconto in bilico tra ricordo nostalgico e fervida immaginazione infantile, dove tutto si trasfigura e diventa magico. Fino alla chiusa, dall’intensa spiritualità: “Guardando dalla finestra della mia stanza la luce della luna e l’infinita neve color fumo, potevo scorgere le finestre illuminate di tutte le altre case della nostra collina e sentivo la musica che da esse saliva verso la lunga notte che scendeva. Abbassavo la lampada a gas, entravo nel letto, dicevo delle parole al buio intimo e santo, e poi dormivo”.
Maria Gisella Catuogno