Un bel libro di Tomaso Montanari (Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità) offre alcune interessanti indicazioni su un percorso possibile per accompagnare la Sinistra italiana fuori dal pantano nel quale si agita (sempre meno, per la verità). Il libro è del 2017, scritto dunque prima dell’ultima sconfitta elettorale del marzo 2018, ma mi appare quanto mai attuale dopo i primi mesi del Governo M5S Lega: poiché, a ben guardare, il nuovo governo sembra aver fatto propria l’ideologia del potere che ha caratterizzato l’azione di Matteo Renzi. E dunque fornisce a quel che resta del Partito Democratico, e della Sinistra in genere, un tema di riflessione che, pur presente in filigrana in alcune allusioni dei dirigenti del Partito, non ha ancora trovato un’espressione chiara e capace di imporlo come discriminante per la ripartenza: il divorzio da Matteo Renzi e dal renzismo. A distanza di sei mesi dalla sconfitta elettorale ancora non è stata dichiarata la sua causa prima, e il Partito mostra senza vergogna l’assenza di direzione di marcia -e di Dirigenza-, costretto nell’ombra sempre più incombente dell’ex segretario. Il ruolo di opposizione, rivendicato fin dal giorno dei risultati elettorali, si esprime in una sistematica contrapposizione fra gli atti del Governo in carica e le meraviglie di quelli precedenti, quando perfino un bimbo capisce che -anche a considerare solo l’opportunità comunicativa- insistere sui meriti di una politica sconfitta clamorosamente alle urne è un autogol che rasenta il martirio.
Il renzismo e gli eredi gialloblu. L’ideologia del potere di Renzi ha un punto fondamentale: le grandi riforme -a cominciare dalla Costituzione- sono imposte dalla “realtà intorno a noi che ce lo chiede” (si è poi visto quanto questo fosse vero). Non c’è dunque una riflessione dall’“interno”, di merito; ma una pressione esterna che impone un adeguamento alla mutata realtà, che ha ormai superato antichi spartiacque ideologici (Destra-Sinistra, Fascismo-Antifascismo, Imprenditori-Lavoratori, Ricchi-Poveri), segnando l’avvento della “post-politica” e della “post-verità”. La Politica è ormai “comunicazione”; e comunicazione breve, sinteticissima, e “informale” (social network); insistente, che consente una “presenza” continua per rafforzare il messaggio (quello immediato, che non ha bisogno di motivazioni e di vaglio critico). La verità è “quello che si dice”, e che si riesce a dire “più” degli altri (cioè a ripetere con maggiore frequenza) e più forte degli altri. Dietro il “messaggio”, -i messaggi, i “post”, i tweet- non c’è uno staff di politici, di tecnici, di cultori delle varie discipline, a dar sostanza all’azione di governo; ma “esperti” di comunicazione, quella delle grandi manifestazioni come le “Leopolde”, dei selfie, delle autointerviste su Facebook, delle esibizioni si Instagram e consimili, del diluvio di Tweet. Per questo modo di fare politica, i partiti non servono: non hanno più funzione aggregativa, informativa e formativa, propositiva, di organizzazione del consenso, di “propaganda”; e non serve più neanche un giornale, una tradizione, una storia, un Pantheon –come si dice-. Tutte queste funzioni sono svolte al centro, dal Leader. Il resto sono inutili intralci.
Questo metodo, come è del tutto evidente, è perfettamente condiviso coi nuovi leader usciti vincitori dalle elezioni di marzo. Leader senza partiti, senza sedi, senza basi organizzate che facciano sentire la loro voce. Nel caso del M5S questo è addirittura teorizzato; la Lega ormai lo pratica ovunque. La base compare solo nelle grandi manifestazioni di consenso; dopo, i leader brillano di luce propria, tollerando i satelliti più luminosi purché ruotanti intorno all’Astro. E la prassi di governo si regola come se la Grande Riforma Renziana fosse stata approvata: il Parlamento non decide più niente, e con l’apparato amministrativo dello Stato è guerra aperta -il Ministro dell’Interno dà disposizioni, rigorosamente via Tweetter, che superano ogni catena di comando; e dispone che Magistratura e Polizia eseguano gli ordini (cosa che naturalmente non gli riesce, almeno per ora)-. Le leggi nazionali o comunitarie o internazionali stanno sullo sfondo, come nella celebre battura dei semafori rossi a Napoli che sono “consigli”, non prescrizioni. E i due nuovi leader (ma anche qualche ministro, che li imita) sono impegnati a sottolineare il proprio ruolo –“voglio, farò in modo che, realizzerò questo o quel provvedimento”- senza considerare nessun aspetto di collegialità o di condivisione. L’Etat c’est moi, come per Luigi XIV, che però parlava di uno Stato che c’era da ottocento anni.
Certo i contenuti sottintesi allo sfolgorare della “comunicazione” sono differenti; ma il trascurare di spiegarli e di farne persuasi i cittadini preferendo bombardarli di “messaggi” li oscurata, e le differenze si perdono. Eppure sono rilevanti. Il neosovranismo e il più o meno marcato antieuropeismo del governo attuale non hanno nulla a che vedere con la linea del governo renziano. Renzi non è un giovane leader ubriaco di potere: si era fatto portatore di una modernizzazione della politica italiana che si innestava -come egli stesso riconosceva- nella linea tracciata da Blair in Inghilterra, e che aveva già travolto lui e la sinistra labourista. Ma “c’è una realtà intorno a noi che ce lo chiede, perché c’è una guerra da combattere contro quelli che sostengono che in questo scenario l’Italia ha tutto da perdere” diceva Renzi nel citato intervento alla “Leopolda” nel 2014. E sapeva quel che diceva. Il 28 maggio 2013 la società finanziaria J. P. Morgan scriveva nel suo “The Euro area adjustment: about halfway there”: “Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione nel mercato globale […] All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia europea, che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; Stati centrali deboli rispetto alle Regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori […] e del diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche”. Riforma della Costituzione, dunque, Jobs Act, Riforma dell’Amministrazione: più chiaro di così. Renzi aveva capito e si era allineato.
Se si confronta con i risultati, la Sinistra ha buone indicazioni per tentare di risalire la china: nel metodo, tornando allo strumento-Partito e alla sua presenza sul territorio; nei contenuti, tornando alla sua tradizione socialista, e quindi egualitaria, libertaria, ambientalista. Non ci vorrà poco tempo, né poca fatica. Ma di questo si dovrebbe, si dovrà parlare.
Luigi Totaro