Alle 6.30 della mattina dell'8 gennaio 1911, a Portoferraio, nel Palazzo dei Merli, a soli 46 anni d'età, si spenge, ucciso dalla tubercolosi, uno dei più straordinari personaggi del nostro recente passato, Pietro Gori, il cavaliere errante dell'anarchia. Lo assistono amorevolmente la sorella Bice e l'operaio Piero Castiglioli. La notizia si diffonde in un baleno e ciascuno vuole rendere omaggio all'avvocato dei poveri, a chi, rinunciando ad una carriera forense ricca e prestigiosa, ha consumato la sua vita a difendere i perseguitati politici, gli operai, i contadini e a lottare per il trionfo dell'Idea.
I funerali, imponenti, dureranno tre giorni.
Tutti partecipano, a casa resta soltanto chi è malato. I discorsi di commemorazione si tengono in piazza Cavour e, come racconta qualche giorno dopo il giornale La Difesa, il lungo corteo funebre con bandiere e musica, in ordine perfetto, percorre via Guerrazzi e le Calate, fino all'imbarco sul piroscafo Giglio., che lascia la banchina in un tripudio di saluti, lacrime, commozione.
A Piombino ogni spazio disponibile è pieno di gente; alcuni, non trovando posto sul bordo delle strade, salgono addirittura sui tetti e da lì, in silenzio, lanciano garofani rossi sul carro funebre. Come all'Elba, è lutto generale: i negozi sono chiusi, gli spettacoli sospesi. Il dolore è impresso sui volti, si esprime nel pianto e nel gesto di un vecchio che toccata la bara esclama Addio, Pietro, ti ho voluto tanto bene! Lungo il tragitto del treno che lo trasporta, centinaia di operai lo salutano alle stazioni; a Castiglioncello lo aspettano duemila persone e trenta bandiere, da Ancona, Pisa, Livorno, Massa Carrara. La cassa viene portata a braccia per sette chilometri fino a Rosignano Marittimo, paese natale della madre, dove giunge in una nottata fredda, ventosa, di mare in tempesta. Un corteo con le torce accese lo accompagna a casa Gori dove è improvvisata la camera ardente. Il giorno dopo una folla immensa assiste alla tumulazione nella tomba di famiglia del piccolo cimitero non prima d'aver preteso e ottenuto l'apertura della bara per vedere l'ultima volta l'amata effigie.
Portoferraio esprime il suo affetto e la sua riconoscenza all'avvocato anarchico, elbano da parte di padre, nativo di Sant'Ilario, dedicandogli, caso unico tra i luoghi goriani, una piazza e una via.
Il 30 novembre 1913 viene inaugurata la lapide in marmo dello scultore Arturo Dazzi: ha dimensioni notevoli e rappresenta un nudo femminile, simbolo dell'Idea, con la testa cinta di un'aureola di spine, a ricordo dei patimenti del suo apostolo. Violata dal fascismo, la lapide viene riconsacrata il 5 maggio 1946, al termine di una grande manifestazione con gonfalone comunale, banda, bandiere e grande partecipazione popolare. A Sant'Ilario, dove Gori ha sempre cercato rifugio, riposo e ristoro dai tormenti della malattia, la storia della lapide nella piazza principale del paese è emblematica dell'affetto che tutti conservano per l'anarchico gentile. Già al momento dell'inaugurazione, negli anni Venti, non mancano gli scontri tra anarchici e fascisti, che non vogliono essere esclusi dalla cerimonia; instaurata la dittatura, i commilitoni non hanno comunque il cuore di distruggere la targa, come avviene in altri luoghi, e la nascondono nella propria sede. Alla caduta di Mussolini, gli anarchici e tutta la popolazione la recuperano e la ricollocano al suo posto. Anche Capoliveri, Porto Azzurro, Rio Elba e Rio Marina manifestano nel tempo i loro sentimenti di stima, riconoscenza, amore: in particolare a Rio Elba, la lapide va distrutta durante la guerra; ritrovato casualmente nel 2004 un frammento della stessa con la scritta Pietro, il Comune, con una solenne cerimonia, colloca il frammento nel Teatro sociale Garibaldi, con la riproduzione dell'iscrizione completa della lapide distrutta.
Insomma, all'Elba, come in tutta la Toscana marittima, le memorie goriane sopravvivono all'usura del tempo e alle convulsioni della storia.
Quanto la figura e il carisma del cavaliere errante dell'anarchia siano rimasti impressi nell'immaginario collettivo della popolazione isolana per molti decenni l'hanno egregiamente documentato Patrizia Piscitello e Sergio Rossi nel bel lavoro, uscito nel luglio 1974, "Pietro Gori e l'Elba" dal sottotitolo "Frammenti della vita di un anarchico raccontati dalla gente", in cui sono raccolte le testimonianze dei vecchi elbani sul loro eroe. Dell'opera è uscita una nuova edizione nel 2008 col titolo "E' tornato Pietro Gori"
In esse l'avvocato-poeta "viene descritto come straordinariamente invincibile e buono, scusando il suo essere anarchico o esaltandolo, ma sempre tenendo conto della sua moralità [...] Al di là di esagerazioni e radicalizzazioni, Gori doveva possedere in effetti una sensibilità alle sofferenze del popolo, una sete di giustizia sociale e una mitezza eccezionali." (Ivi, pag.72)
Come spiegare questa memoria duratura in bilico tra realtà e mito?
Anzitutto con la statura nazionale e internazionale del personaggio: Gori tiene conferenze e comizi ovunque in Italia e all'estero, parlando di libertà, uguaglianza, di lotta contro l'oppressione e lo sfruttamento, di guerra alla guerra e di emancipazione delle donne, di una società futura fondata sulla giustizia e la responsabilità individuale; difende instancabilmente i compagni offrendo un modello di arringa politica che farà scuola; ha un'eloquenza eccezionale, che incanta le folle, per le quali la sua è una parola alata; è il rivoluzionario perseguitato, condannato al carcere, costretto alla fuga e all'esilio, che percorre i quattro angoli del mondo, dall'Europa alle Americhe, spostandosi dagli Stati Uniti all'Argentina, fino alla Terra del Fuoco, e poi in Egitto e in Palestina, ovunque diffondendo il suo vangelo laico ma anche cantando le proprie canzoni accompagnandosi con la chitarra; è poeta, drammaturgo, saggista, compone inni come Addio Lugano bella destinati a lunga fortuna.
E inoltre ha le phisique du role: è alto, snello, bello e elegante, piace anche alle signorine di buona famiglia; è stimato dai borghesi, che lo sentono avversario politico, non nemico.
All'Elba, quando vi soggiorna per riposarsi e cercare sollievo alla malattia che lo tormenta, il quadro socio-economico è di estrema complessità: Portoferraio si sta trasformando in una città industriale, vincendo lo spettro della fame con la nascita dell'impianto siderurgico a inizio secolo e attirando un'immigrazione imponente e disordinata, ma i ritmi di lavoro nello stabilimento sono massacranti, con turni di dodici ore, svolti in condizioni di totale rischio: la classe operaia prende così in considerazione obiettivi di lotta più incisivi, che, accanto al miglioramento salariale, garantiscano una maggiore sicurezza; nel frattempo lo sviluppo del terziario alimenta un corposo ceto commerciale e impiegatizio favorendo iniziative culturali di varia natura. Nel versante orientale, a Capoliveri, a Rio Marina, i minatori continuano ad abbrutirsi in attività sfiancanti ma sempre di più aderiscono alle associazioni operaie. In questo difficile contesto, Pietro Gori, che sostiene le ragioni e le lotte dei proletari, è visto come un sorta di messia, amato e idolatrato.
"La sua vita avventurosa, scomoda, in cui si riconosce la causa della malattia che lo porta alla morte, viene vista come un sacrificarsi alla causa dei lavoratori, un pagare di persona che merita il rispetto anche di chi non condivide le sue idee [...] Anche la narrazione della sua morte, da parte di una signora portoferraiese, sembra il finale di un dramma o di un'opera lirica, con quell' invocare di rivedere il sole, l'immagine dei raggi mattutini che inondano il letto del moribondo, la presenza femminile addolorata e consolatrice della sorella" [Ivi, pag.70]
Insomma, tra leggenda e realtà, Pietro Gori continua a vivere nel cuore di chi, pur vivendo nell'epoca della globalizzazione e quindi in condizioni storico-economiche e politico-culturali completamente diverse da quelle di un secolo fa, continua a credere nei valori della libertà e della giustizia sociale.
Per questo la sua figura merita di essere conosciuta e apprezzata anche dalle giovani generazioni.
Maria Gisella Catuogno