8. Da Zitto e nuota! - All'arrembaggio del Veliero Cavodurno (parte 3)
Da parte mia, mi rialzai traballando e, a gambe larghe, esaminai la situazione: adesso mi trovavo in piedi al centro di una barchetta a metà tragitto tra molo e barcone. Ovviamente dovevo andare verso il barcone e, non essendoci remi, l'unico sistema era afferrare la grossa gomena e tirare come avevano fatto Pieraugusto e gli altri. Solo che, con le mie manovre inconsulte, avevo fatto spostare il barchino lontano dal percorso della gomena. Con una mossa che ritenni molto astuta cominciai perciò a far oscillare la barchetta sotto i miei piedi, avanti e indietro, con l'intento di farla avvicinare alla corda. Non potevo muovere i piedi perché temevo di cadere in acqua, così forzavo sulle gambe, spostando il peso del corpo su una e l'altra alternativamente.
Dodici occhi interessati, sei per parte, assistevano divertiti alle mie manovre, e la cosa cominciava a innervosirmi e a crearmi un certo imbarazzo. Dopo vari minuti di oscillazione non mi ero spostato di un centimetro, loro ridevano a più non posso e la mia gamba sinistra cominciava a dar segni di affaticamento con un accenno di crampo. Decisi allora che era giocoforza abbandonare quella tecnica e che occorreva «remare» verso il barcone. Poiché ogni piccolo movimento dei piedi faceva paurosamente oscillare il tutto, mi inginocchiai lentamente, senza pensarci su molto, e mi ritrovai con la faccia rivolta all'opposto di dove dovevo andare. Sentii una voce che bisbigliava: «Ma cosa sta facendo?» Ma, con i giri che avevo fatto, non capii se a parlare era stato uno degli uomini sul barcone o una donna sul molo. Inconsciamente capii solo che ero in stato confusionale e ricordo che avrei voluto che il mare si aprisse e mi inghiottisse, che non fossi mai partito, che non mi fossi seduto sul muretto.
Guardai in alto perplesso: incontrai i sei occhi maschili; uno degli uomini (forse Maurizio, non ricordo bene) mi apostrofò dal rimorchiatore: «Ti serve aiuto?» A dire il vero, me ne sarebbe servito molto, di aiuto, ma mi sentii in dovere di rispondere prontamente di no. Non fu certamente la parte razionale di me a dire una cosa così stupida.
Ho notato che ciascuno di noi deve avere per dotazione ineluttabile una buona dose di masochismo. Io, comunque, ce l'ho: quando soffro, quando sono in situazioni precarie o critiche, quando basterebbe una piccola cosa da fare per uscirne fuori, io non lo faccio mai. È più forte di me, non posso farci nulla! E non è che io non mi renda conto di cosa sarebbe necessario fare per salvarmi: è solo che non riesco a farlo, come se provassi gusto ad affondarmi nella lava rovente della sofferenza. Adesso sarebbe bastato che rispondessi un piccolo: «Sì grazie, tirami una corda», e tutto si sarebbe risolto per il meglio; invece...
Dopo aver risposto perciò che non mi serviva aiuto, e aver così pagato l'ineluttabile tributo alla mia quota geneticamente incorporata di autolesionismo, decisi di remare, con le mani nell'acqua, inginocchiato verso poppa, come un musulmano in preghiera (i musulmani sono rivolti verso la Mecca e non verso poppa, chiaramente, ma la posizione era quella). Tuffai la mano destra e detti una vigorosa bracciata nell'acqua fino al gomito, inzuppandomi la manica della camicia col variopinto miscuglio di acqua e petrolio tipico dei porti mercantili come Livorno; poi tuffai, per giustizia e simmetria, anche la sinistra, bagnandomi l'altra manica della camicia e facendo fare una vigorosa lubrificazione al meccanismo del mio orologio non subacqueo (che, da quella volta, ha recuperato quei dieci minuti di ritardo giornalieri che si portava dietro per vocazione dalla nascita e non li ha più ripersi). Il barchino intanto, non avendo chiglia, faceva perno sotto il peso del mio corpo e spostava alternativamente la poppa a destra e a sinistra, come un pendolo, rimanendo fermo dov'era. Io continuavo a remare prima a destra poi a sinistra come un forsennato e quello, preciso, oscillava prima a sinistra e poi a destra, fino a che, dopo un tempo imprecisato, io ero senza forze e quello era nello stesso punto di prima. Anzi, a dire il vero, un poco si era spostato, ma non verso il cargo né verso il molo: aveva slittato, per così dire, tras¬versalmente e adesso si trovava proprio sotto la gomena d'ormeggio del barcone. Non mi soffermai ad analizzare la dinamica di questo colpo di fortuna (mia nonna avrebbe detto: «A caval donato non si guarda in bocca »): decisi di accettarlo come si accetta un dono divino e non indagai oltre. Perciò lentamente mi alzai in piedi traballando sul piccolo guscio, e allungai le braccia verso la salvezza: afferrai la grossa corda con ambedue le mani, saldamente, e seppi che ormai avevo vinto.
Cominciai a tirare con foga, come avevo visto fare agli altri. Sorse però subito un problema, un grosso problema: l'infido barchino non ne voleva sapere di seguirmi passivamente. Quando erano passati gli altri esso faceva tutt'uno col loro corpo, si spostava all'unisono con la persona: sembrava che fosse una scarpetta aderente ai loro piedi, tanto era attaccata a loro. Verso di me, invece, manifestò subito tutta la sua avversione, probabilmente per il modo in cui gli ero saltato addosso dal molo tentando di sfondarlo: a una bracciata scivolava via veloce in avanti come se sotto avesse la sciolina, alla bracciata successiva ci ripensava e scivolava all'indietro facendomi ondeggiare come su dei pattini, finché a un certo punto decise che la mia compagnia per lui non era divertente, e attuò una separazione non consensuale andandosene silenziosamente per i fatti propri lasciandomi appeso alla gomena come un salame. E là sarei rimasto fino a che le forze mi avessero retto, e cioè ancora pochi secondi, se qualcuno dal basso non mi avesse messo sotto una sedia... Quel qualcuno fu Pieraugusto e la sedia non era una sedia vera e propria, ma Pieraugusto stesso che, vista la situazione, si era calato con rapidità sul barchino ribelle, era venuto sotto di me, e mi aveva preso a cavalcioni sulle spalle. Così, con Pieraugusto ritto sul barchino e me strettamente avvinto con le gambe al suo collo e con le mani alle sue orecchie, traghettai sul barcone e fui accolto con un applauso.
Il trasbordo delle donne dal molo al cargo non ebbe inceppamenti di alcun genere: evidentemente il barchino maledetto ce l'aveva solo con me e tutto filò a meraviglia; in pochi minuti furono tutte a bordo, felici e pimpanti. Dal parapetto del cargo detti un'altra occhiata al barchino e mi chiesi se, al ritorno, non mi sarebbe convenuto circumnavigare il globo.
Continua...
Gianfranco Panvini