10. Da Zitto e nuota! - La passerella (parte 1)
Ci sono situazioni, nella vita, che mettono a dura prova la forza d'animo dell'uomo e il suo coraggio. Ci sono situazioni che ti fanno essere fiero di appartenere al genere umano, di avere la capacità di decidere coscientemente le azioni più pericolose e rischiose in funzione di un fine ultimo, non importa quale.
Queste situazioni ci esaltano ed elevano il nostro animo e la nostra razionalità ben oltre il livello puramente istintivo proprio degli animali. In questi frangenti tu sai che davanti a te sta il rischio, ma lo affronti serenamente, da eroe, in nome dell'Ideale con la I maiuscola. Da bambino mi hanno più volte raccontato la storia di un mio valoroso antenato che mise a repentaglio la propria vita per portare a termine un'importante missione che gli era stata affidata. I giornali parlarono a lungo del suo sprezzo del pericolo, del suo sangue freddo nell'affrontare impavido la disperata missione, e lo chiamarono eroe.
Credo però che quell'eroe sia stato un mio parente acquisito: nel mio sangue, ne sono certo, non c'è un solo globulo rosso o una piastrina che discenda da lui.
Cí sono situazioni in cui ti chiedi come hai fatto a finirci dentro, e ti senti chiuso in trappola, senza via d'uscita, e non sai proprio come farai a cavartela. Quella da¬vanti a me era una di queste situazioni: avrei voluto scomparire dalla faccia della terra (e anche da quella del mare, anzi soprattutto da quella!).
Lo stato delle cose era a questo punto: io ero sul rimorchiatore, dietro di me il cargo maledetto e l'infido barchino, davanti a me il Cavodurno separato dal rimorchiatore da una lunga e stretta passerella senza sponde. Tornare indietro e affrontare di nuovo la lotta col barchino era fuori discussione: ero certo che avesse un carattere vendicativo e maligno e che pertanto avrebbe trovato il modo di scaraventarmi a mare o farmi chissà quale altro dispetto. Rimanere sul rimorchiatore per tutta la vita era impossibile: prima o poi avrei dovuto uscirne fuori. Non restava perciò altra via che andare avanti, verso íl Cavodurno. Dovevo bere quel calice fino in fondo.
Mi avvicinai alla passerella per vederla meglio: era una tavola larga non più di venti centimetri (un palmo), lunghissima (oltre sei metri, e perciò sembrava anche più stretta), con cinque peculiarità che mi balzarono subito agli occhi. Le enumererò qui di seguito, così come le ho notate:
1. La passerella in questione era fatta di legno scadente e piuttosto mal ridotto, di spessore abbastanza sottile e con qualche crepa sparsa sia per lungo che per largo (anzi per stretto) che suggerivano un'idea di notevole fragilità e debolezza, creando altresì un vago malessere alla bocca dello stomaco.
2. Detta passerella era posizionata in ripida salita, stante che il Cavodurno aveva una poppa altissima sul livello del mare, molto più alta del già alto rimorchiatore; da cui scaturiva che:
3. La passerella stessa era sospesa su un baratro, o quasi, dato che il mare era a livello del mare (com'era giusto che fosse) e lei, la passerella, a un'altezza impressionante.
4. Le due barche così precariamente collegate si muovevano ciascuna con moto proprio, aritmico, e non facevano assolutamente nessuno sforzo per adeguare il movimento dell'una a quello dell'altra; ne risultava così una danza caotica asincrona e paranoica che imprimeva alla passerella movimenti sussultori e ondulatori degni di un sesto grado della scala Mercalli.
5. Ultimo, ma non certo per importanza: nessuno si era preoccupato di avvitare qualche montante di ferro sulla passerella e far correre così una corda da un capo all'altro, come corrimano. Non si pretendeva certo un doppio corrimano, a sinistra e a destra, con montanti dí ottone lucidato e spessa corda ritorta stagionata; sarebbero stati sufficienti dei semplici ritti di ferro, magari da una parte sola, con una fune qualunque a cui affidare la propria vita durante l'attraversamento del baratro tra le due barche. Anche il lattante, la cui vita dipende dal seno materno o dal poppatoio, ha bisogno di toccare continuamente la fonte della sua sicurezza.
Ecco il perchè del mio stato d'animo e il mio ricorrente chiedermi come avessi fatto a cacciarmi in una situazione simile. A mò di incoraggiamento, quando stavo per recriminare sullo stato della passerella, Almiro ci prevenne tutti:
«Scusate la passerella di fortuna», disse, «ma quella in dotazione al Cavodurno è troppo corta, e quella che abbiamo usato fino a pochi giorni fa si è troncata mentre vi passava un mio amico...»
Non chiesi cosa si fosse fatto, il suo amico: non volevo saperlo, non volevo sapere nulla; avrei voluto scappare; forse, se me l'avessero chiesto, avrei anche voluto morire... Alzai gli occhi al cielo, non tanto per supplicare un aiuto divino (ce ne sarebbe comunque stato tanto bisogno...), quanto perché avevo appena sentito il tipico rumore di un elicottero. In effetti era proprio un elicottero, ma la mia improvvisa speranza di salvezza morì subito dopo, non appena mi accorsi che, ignaro del mio dramma, se ne andava tranquillamente per i fatti suoi e non aveva alcuna intenzione di calarmi una scaletta di salvataggio e tirarmi su.
Fu Marisa che mi tirò fuori dalla più nera disperazione. Vista la situazione, proclamò con fermezza: «Io su quella passerella non ci salgo, nemmeno se mi puntate un fucile alle spalle...»
Almiro prima rassicurò Marisa sul fatto che nessuno voleva puntarle contro il fucile, né davanti né alle spalle, poi sorridendo disse:
«Sapevo che qualcuno avrebbe avuto delle perplessità a passare su questa passerella, così ho pensato a tutto. Pieraugusto e Maurizio, prendete quella corda e tendetela tra le due barche; io aiuterò le donne a passare».
Così Maurizio e Piera andarono a tendere la corda tra il rimorchiatore e il Cavodurno, sopra la passerella, tenendola stretta intorno alla vita, a mò di montanti umani, e il corrimano fu improvvisato così. Ciascuno dei due uomini stava puntellato con un piede sul bordo della rispettiva barca, e tendeva la corda quanto bastava a non gettare l'altro a mare. Mentre Almiro accompagnava Ariella, che con una mano si teneva alla corda e con l'altra stringeva la sua mano, io mi persi a vagare con la mente: immaginai che la passerella si troncasse quando passavo e che, aggrappandomi alla corda, io cadessi in mare trascinandomi dietro Piera e Maurizio. Vidi la scena molto nitidamente, ricca di particolari, nel mentre sentivo una vocina lontana che mi chiamava. La vocina lontana divenne un grido violento che mi riportò alla realtà: evidentemente mi ero dilungato molto a immaginare la scena del tuffo a mare perché, riscosso dall'urlo di Almiro che mi chiamava, vidi che anche Liana e Marisa erano già sul Cavodurno, e io non mi ero accorto di nulla.
Continua...
Gianfranco Panvini