12. Da Zitto e nuota! - Delfini!
Mi ero sdraiato verso poppa, con la testa sotto una panca per ripararmi gli occhi dal sole. Per un po' avevo cercato di scorgere i delfini sulla superficie dell'acqua, ma avevo smesso quando i miei occhi vedevano delfini dappertutto e gli altri invece insistevano a dire che non ce n'era neppure uno. Cullato dal molle ondeggiare della barca, riscaldato dal tepore del sole (qui ci sarebbe stata bene una frase tipo «nel silenzio profondo del mare, rotto solo dal fruscio della barca che scivolava sulla sua superficie levigata», non mi sono ripromesso di attenermi alla verità pura e semplice, quindi:), intontito dal rumore assordante del motore, presi sonno. O almeno, penso di aver preso sonno, perché vedevo delfini dappertutto: il mare era una distesa di delfini; sulla barca i delfini, con salti spettacola¬ri, si accatastavano a poppa; qualcuno si era anche arrampicato sull'albero più alto, il che mi sembrò un'esagerazione. Ad un certo momento fui destato da un urlo disumano che, vincendo il fracasso del motore, tuonò: «Delfiniii!!! »
Mi alzai di scatto, mettendomi a sedere. Anzi, pensavo di mettermi a sedere, ma mi ero dimenticato di essere «sotto» una panca, almeno con la testa. Battei una zuccata spaventosa, fantastica, e rimasi stordito per qualche minu¬to. Ricordo che Pieraugusto mi disse in seguito che, a quanto risultava a lui personalmente, nessuno prima di allora aveva mai battuto la testa «sotto» una panca.
Ci precipitammo tutti vicino a Pieraugusto, che aveva urlato: era in piedi, con il braccio proteso verso un punto preciso del mare, e continuava a urlare: «Delfiniii», con la foga dei marinai di Cristoforo Colombo quando avvistarono la terra. Era una figura pittorica, in quel momento, e avrebbe meritato una foto, se avessi avuto la macchina fotografica a portata di mano (me la trascino sempre dietro, e poi non c'è mai quando mi servirebbe veramente). Ci stringemmo intorno a lui e seguimmo con lo sguardo la direzione del suo braccio. Intanto lui continuava a urlare: «Delfiniii», con quanto fiato aveva in gola: la cosa, in un primo tempo, mi parve eccessiva, dato che eravamo tutti là (compreso Maurizio, che avrebbe dovuto essere al timone). D'altra parte, con urli di quella portata, difficilmente qualcuno poteva restare indifferente, pur con il motore del Cavodurno. Stavo per dirgli che era inutile che continuasse a urlare, ormai, quando mi venne in mente che, forse, lui non stava affatto chiamando noi, bensì i delfini. Siccome sono ignorante di cose di mare, rimasi zitto, e mi unii al gruppo compatto che scrutava il mare.
Se devo essere sincero, io non vedevo nulla, però pensai che in quel momento forse i delfini si erano tuffati, e guardavo attentamente in attesa di vederli spuntare. Dopo un po' pensai che forse Pieraugusto si era ingannato, ma siccome continuava a urlare a squarciagola, attesi. Per un po' non successe altro, poi anche Maurizio cominciò a urlare, seguito dagli acuti delle donne. Conti-nuavo a non vedere nulla, e fui propenso a ritenere che, se io fossi stato un delfino, udendo tutto quel baccano, sarei fuggito distante molte miglia.
Dopo vari minuti di attenta osservazione, anch'io scorsi una sagoma scura che si muoveva, compariva e scompariva. Visto che, dopo un po', la distanza rimaneva invariata e i delfini non manifestavano l'intenzione di avvicinarsi, nonostante l'affascinante richiamo di Pieraugusto, quest'ultimo disse a Maurizio: «Accosta verso di loro, ma lentamente».
Mi chiesi come si sarebbe comportato Maurizio se Pieraugusto gli avesse detto di andare «velocemente». Maurizio virò di novanta gradi e la barca con un ampio cerchio, si diresse lentamente (come sempre) verso i delfini.
Quando fummo a trenta metri mi sentii cogliere dall'emozione: era il delfino più grosso che avessi mai visto o immaginato di vedere. Aveva un unico problema: era un po' fiacco, non faceva i tuffi spettacolari che in genere fanno gli altri delfini; sembrava che questo avesse dei pro¬blemi familiari che l'avevano reso svogliato o triste.
Quando fummo ancora più vicini, ne comprendemmo la ragione: era un grosso tronco d'albero, scuro e affusolato, simile a un delfino, ma del tutto incapace di tuffarsi con la stessa grazia.
Gianfranco Panvini