13. Da Zitto e nuota! - I parabordi (parte 1)
Eravamo ormai vicini all'isola di Capraia e ci stavamo dirigendo verso il suo porticciolo.
«Adesso», riprese Pieraugusto, «prepariamoci a entrare nel porto. Non ci saranno molti problemi, perché la banchina dovrebbe essere quasi deserta, in questo periodo. A ogni modo ognuno avrà un suo compito preciso e siete vivamente pregati di svolgerlo con attenzione.»
Disse queste parole senza guardare nessuno in particolare, ma sentii il suo sguardo «mentale» fisso su di me.
«Voi donne», riprese, «vi occuperete dei parabordi.»
«Cosa sono?» chiese Marisa, scandalizzando Maurizio.
«Sono quei grossi salsicciotti e quelle palle... insomma, quei respingenti di plastica tondi e cilindrici che ser¬vono a non far urtare le barche tra loro. Probabilmente,
ripeto, avremo il porto tutto per noi, e i parabordi non serviranno, ma, caso mai servissero...»
Le donne assentirono, confermando che, se fosse stato necessario, avrebbero assolto il loro compito con competenza e serietà.
Pieraugusto si rivolse a me: «Tu avrai un compito molto importante e delicato: quando te lo diremo noi (alludeva a lui e Maurizio) dovrai mollare l'ancora. Devi farlo nel momento preciso in cui ti verrà detto, né prima, né dopo».
Dissi che andava bene, per me, e mi diressi rapidamente verso poppa, per far vedere che ero già pronto.
Pieraugusto mi guardava in silenzio: ero tutto preso dal mio compito importante, che non detti a vedere di aver battuto due volte l'alluce destro, nel percorso. Mi chinai a cercare l'ancora, ma non la vedevo. Qualche inesperto doveva averla coperta con delle borse (ce n'erano dappertutto, in coperta). Spostai tre borse, una cassetta per l'acqua, due vele arrotolate e un cumulo di corde avvolte ordinatamente su loro stesse, imbrogliandole malamente. Nulla da fare: l'ancora, probabilmente, era caduta in mare.
Mi alzai per dirlo a Pieraugusto, ma non fu necessario che parlassi. Mi accorsi che tutti mi stavano guardando, immobili e silenziosi come statue. Pieraugusto disse: «L'ancora sta a prua. Le barche attraccano di poppa».
Capii immediatamente per quale motivo l'ancora non si trovava, ma nello stesso tempo sarei sprofondato dalla vergogna. A dire il vero, lo feci. Un po' impacciato, infatti, mi diressi verso prua, sotto lo sguardo di tutti, battendo tre ditate (due erano negli stessi punti di prima, ma con l'altro piede, dato che avevo invertito la direzione di marcia). Non volevo fare brutte figure questa volta, così, conscio degli sguardi fissi su di me, mi misi a osservare attentamente la prua mentre camminavo, per dirigermi verso l'ancora. Guardavo intensamente, nella disperata ricerca
dell'ancora quando, all'improvviso, non vidi più nulla; il mare, il ponte, erano spariti, e io ero avvolto nelle tenebre. Doveva essersi aperta la superficie del mare, pensai, in¬ghiottendoci nelle sue profondità. Guardai in alto, convinto di vedere l'acqua «dal di sotto», e capii cosa era suc-cesso.
Inaspettatamente, ero caduto di botto in un tombino.
Non era un tombino nel senso comune della parola, ma l'effetto fu lo stesso: ero sprofondato nel grosso oblò rettangolare (boccaportino, anche quello) che serviva a dar luce nella cabina di prua. Maurizio e Marisa lo utilizzavano come uscita secondaria della loro cabina.
Mi arrampicai su una cuccetta e misi il capo fuori: appena mi videro, cominciarono a sganasciarsi dalle risate. Tutti, compreso mia moglie; anzi soprattutto mia moglie. Non c'è nulla che faccia andare in bestia più del fatto di cadere e vedere che gli altri ridono.
Quando ho rinfacciato il fatto a mia moglie, mi ha accusato di mancare di obiettività.
«Hai sempre sostenuto», ha detto, «che nulla è più comico che vedere uno cadere. Anzi, ricordo che una volta dicesti che il tuo sogno era veder scomparire uno in un tombino, perché doveva essere di una comicità eccezionale.»
Non c'è nulla di più irritante che sentirsi rinfacciare di aver detto qualcosa, nel momento in cui non vorresti mai averla detta.
In quella caduta nel tombino, a ogni modo, non ci trovai nulla di comico, ma probabilmente ciò dipendeva dal fatto che ero io a essere caduto.
Quando riemersi completamente sul ponte le risa cessarono e io potei finalmente dedicarmi all'ancora. C'era un solo problema: anche lì l'ancora non c'era. Guardai attentamente, molto attentamente, come si può cercare uno spillo o un piccolo chiodo, anche se ero convinto che,
se l'ancora ci fosse stata, l'avrei vista con una certa facilità. Non so che cosa avrei dato per avere un'ancora sottomano. Alzai la testa verso Pieraugusto: credo di aver avuto le lacrime agli occhi.
Sempre premuroso e comprensivo, lui mi venne vicino e mi spiegò:
«L'ancora è a prua, ma non puoi vederla perché sta "sotto". Qui c'è il verricello elettrico che serve a calare a mare la catena, dopo che l'ancora è scesa, oppure a tirarla su. Con questo bastone di ferro (e sfilò un'asta metallica piena, pesantissima, da un foro) tu devi dare un grosso colpo su questa tacca del verricello (e me la mostrò con il dito) quando ti dico di calare l'ancora; su quest'altra, invece, se ti dicessi di tirarla su. Tutto chiaro? » Dissi che sì, era tutto chiaro, non ci sarebbero stati problemi. Lui alzò gli occhi al cielo come dire «speriamo», ma disse: «I colpi devono essere molto forti, se no il verricello non funziona».
Gianfranco Panvini