L'ennesimo scempio portato a una testimonianza del passato come il forte Saint Cloud, e giustamente denunciato da Italia Nostra, suscita qualche considerazione. Se consideriamo l'opera in sé, la sua perdita è relativamente drammatica: gran parte delle sue strutture erano state rase al suolo con la costruzione degli altiforni, nel 1900, soprattutto del grosso pontile di caricamento intitolato a Hennin, che proprio da questo punto partiva. Quelle che rimanevano erano dunque poco più che le fondamenta, peraltro difficilmente leggibili da opere murarie successive. Inoltre anche quando era perfettamente riconoscibile si presentava come un'opera architettonica modesta, appena svettante da quello che in passato era un promontorio chiamato punta delle Saline.
Allora, perché indignarsi per una morte così annunciata? Perché per capire la sua importanza occorre guardarla in un'ottica generale. Ovvero quella detta del camp retranché (ovvero, approssimativamente, campo fortificato) di inizio Ottocento.
Di solito quando si parla del genio strategico di Napoleone si pensa alle sue grandi battaglie o campagne militari, ovvero la parte più “spettacolare” della sua vita bellica. Si valuta meno il suo poco appariscente ma più innovativo approccio nella complessa preparazione dell'assetto strategico offensivo e difensivo, come nel caso di Portoferraio, alle caratteristiche ambientali e geografiche di un teatro militare.
Un generale come lui e gli uomini del suo tempo si resero conto che sul finire del secolo XVIII il concetto difensivo di piazza militare cambiò in conseguenza alle nuove tecnologie. Le artiglierie più potenti, devastanti e di gettata sempre più ampia resero obsoleta l'idea di piazzaforte di tipo accentrato, ovvero la città stretta nella sua cinta muraria e l'intero presidio asserragliato all'interno. Gli stessi francesi se n'erano ben resi conto proprio a Portoferraio, durante l'assedio del 1799, quando la città era martellata dalle artiglierie installate alle Grotte, quindi non poco distanti da essa. Si imponeva una difesa più allargata, con opere secondarie collocate in punti strategici nei dintorni della piazza fortificata, in modo da costringere i cannoni assedianti a non poter raggiungere una gittata tale da offendere la città.
Così agli inizi dell'Ottocento Napoleone riunisce tutti i migliori ingegneri militari e civili, geografi e topografi di Francia per elaborare una nuova concezione strategica da applicare alle città fortificate europee. Le teorie elaborate segneranno l'architettura militare di buona parte del secolo. Si sviluppò il concetto di camp retranché: la piazzaforte non cambia ragion d'essere, ma al suo esterno devono essere dislocati ulteriori fortini satelliti. Il camp retranché inoltre introdurrà una spinta formidabile agli studi topografici e geografici di un territorio, necessari per l'organizzazione militare, ma in generale per una conoscenza più scientifica di esso. Così durante l'occupazione dell'Elba (1802-14), gli ingegneri francesi si dettero da fare per adeguare l'importante caposaldo di Portoferraio ai nuovi dettami.
Tale adeguamento è l'ultimo grande intervento migliorativo della piazzaforte di Portoferraio, che di lì a pochi anni perderà progressivamente importanza militare. Anzi, si può dire che dal punto di vista della vastità e organicità dell'intervento è forse la seconda più profonda trasformazione della piazza dalla sua nascita, subito dopo la costruzione del possente fronte di terra bastionato (1575-87), a opera di Bernardo Buontalenti; e davanti sia al piano di fortificazioni del Ponticello del 1693-94 (con la costruzione delle batterie che proteggevano il fossato, a opera di Mario Tornaquinci), che al rafforzamento del piede del suddetto fronte del 1732-34 (a opera degli spagnoli), che ancora al piano di ammodernamento generale lorenese del 1744.
Vediamolo in dettaglio. Più che veri e propri forti furono realizzate ridotte o batterie, se non addirittura semplici caserme bastionate, custodite da presidi di pochissimi uomini. Le strutture sono di pianta semplice, quasi sempre quadrangolare, molto spartane, realizzate con muratura a pietrame misto, tirate su in pochi mesi, e in caso di assalto nemico pronte a essere evacuate e neutralizzate facilmente. Non ci troviamo quindi di fronte a edifici architettonicamente significativi o belli da vedere, ma di grande efficacia. La ridotta di Saint Roch, per esempio, una delle poche ancora esistente appare una struttura anonima, in mezzo a edifici moderni. Anche il ristrutturato forte Inglese, che prese il nome di forte Saint Hilaire, l'unico già presente fuori dalla piazzaforte e con una storia molto più articolata, entrò nel nuovo quadro difensivo.
Le strutture presidiavano tutte le alture intorno alla città e alla rada, anche quelle modeste. La più vicina alla piazzaforte era la batteria di Saint Roch, sulla collina di San Rocco. È, in linea d'aria, a metà strada tra il fronte di terra e il forte Saint Hilaire, a circa trecento metri da entrambi. Dalla sua posizione poteva controllare la spiaggia delle Ghiaie, il fosso del Ponticello e parte della rada. Inoltre, insieme al forte Saint Cloud, copriva la ritirata al forte Saint Hilaire, e costituiva una linea di difesa estrema per il fronte bastionato. La sua superficie copre circa 600 metri quadrati ed è formata da una faccia e due fianchi, protetti da un fossato scavato nella roccia. Davanti all'ingresso (fuori mura) sorgeva un piccolo magazzino, sotterraneo con soffitto a volta. La batteria fu progettata tra il 1803 e il 1804 e risulta terminata nel 1805. Se ha resistito alla massiccia urbanizzazione dell'area è per un ritorno di interesse militare nel Novecento: fu infatti riarmata come batteria costiera e antiaerea durante la seconda guerra mondiale.
Sulla rada si affacciavano il forte Saint Cloud, la batteria del Lazzaretto e la ridotta detta “du punt du juor”, entrambe realizzate tra il 1803 e il 1804 e oggi scomparse: la prima sorgeva sulle fondamenta dell'attuale palazzo Coppedè e l'altra pressappoco dove oggi si apre piazza Virgilio.
Il forte Saint Cloud vigilava sul lato di mare, la rada e l'imbocco della darsena, e su quello di terra, la strada d'accesso a Portoferraio. Distava 400 metri dal fronte d'attacco e 500 dal forte Saint Hilaire. La forma era pentagonale. Nella faccia est, in cui si apriva l'ingresso, c'era un corpo di guardia. La batteria occupava una superficie di 1600 metri quadrati. Era dotata di una piccola cisterna della capacità di 21,25 metri cubi. Il terrapieno si elevava sul mare di 19 metri, mentre i parapetti erano larghi sei metri e mezzo. Il forte era circondato da un fosso scavato nella roccia, nel quale si accedeva tramite una galleria a prova di bomba, sul lato sud-est. L'area interna era tagliata in due, come una traversa, dalla caserma, ovvero una casamatta con soffitto a prova di bomba, i cui ambienti ospitavano un magazzino della polvere, un corpo di guardia e un alloggio. Fu iniziato nel 1803 e terminato pochi mesi dopo, poiché è già visibile su un rilievo di circa un anno più tardi. Un altro disegno è del 1812, e testimonia le migliorie apportate alla struttura. La sua importanza strategica fu stimata per tutto il XIX secolo, dato che era ancora armato di due obici alla fine dell'Ottocento.
Nel 1809 gli ingegneri francesi pensarono di allargare ulteriormente il camp retranché. Furono progettate due ridotte, sui monti delle Bombe e Bello, che insieme al forte Saint Hilaire dovevano costituire un buon terzetto avanzato. Ma la prima quasi sicuramente non ha mai visto la luce. Il primo progetto della ridotta del monte delle Bombe – ovvero l'attuale poggio Consumella, alto 70 metri – fu elaborato dal capitano Soulhal, ma ci sono buone probabilità che rimase sulla carta. Il forte doveva avere forma pentagonale e coprire una superficie di circa 700 metri quadrati; essere composto da da due fronti, protetti da un fosso, e una faccia; e poter alloggiare quaranta uomini. All'interno dovevano esserci due corpi di guardia, un magazzino per polveri, un magazzino viveri, due piattaforme per obici e due cannoniere. Nel 1811 c'è un ritorno d'interesse per questa zona. Dopo un accurato studio topografico, il capitano del genio Leonardo Garin e il suo aiutante Daret progettarono prima un'opera a corona e, l'anno dopo, un vero e proprio forte di forma romboidale, con all'interno quattro camerate, due magazzini e una piccola chambre de discipline. L'ingresso sarebbe stato fiancheggiato da due casematte. Secondo le loro intenzioni il monte delle Bombe doveva diventare il perno del camp retranché. Nel 1813 i due architetti si impegnarono negli espropri dei terreni interessati. Ma anche questa volta difficilmente i lavori furono intrapresi. Se anche fosse stato iniziato, gli interventi furono quasi sicuramente sospesi nel 1814, per la caduta dell'impero napoleonico.
Sempre riguardo a forti non realizzati va detto che nel 1808 venne progettata una batteria sul colle dell'Annunziata, dove sorge l'omonima chiesa. Nell'intenzione degli ingegneri napoleonici essa doveva fiancheggiare il forte Saint Hilaire.
Il forte di monte Bello (in origine, Albero) era l'opera più avanzata del camp retranché, distante circa due chilometri dalla città, e l'unica che si trova ancora in una zona non urbanizzata, sul monte omonimo. Il suo stato è pessimo, in quanto lasciata nel più totale abbandono. Essa infatti deve aver avuto vita breve: probabilmente fu abbandonata dopo il passaggio dell'isola al granducato di Toscana. La ridotta fu progettata nel 1809 dal capitano Soulhal, e realizzata l'anno dopo. Venne concepita in forma di un rettangolo irregolare, con due fronti e una faccia, occupante una superficie di 1500 metri quadrati. All'interno, sotto il piano di calpestio, c'erano nove stanzoni con soffitto a prova. Essi ospitavano, nell'ordine da ovest a est: corpo di guardia e batteria coperta, magazzini delle artiglierie, tre caserme, alloggio ufficiali, alloggio sottufficiali, magazzino di viveri e cucina, e alloggio artiglierie. Il fronte ovest, in cui si apriva l'ingresso, era protetto da un fossato, solcato da un ponte levatoio. Sotto le cucine c'era una cisterna. Sul lato est, fuori mura, si trovava un magazzino delle polveri, comunicante col forte tramite una galleria. Tra il 1811 e il 1813 il forte fu oggetto di uno studio approfondito, a opera del capitano Garin e del suo aiuto Daret. Il progetto era organico a quello del monte delle Bombe: i due forti si sarebbero dovuti dividere i compiti sul controllo dell'area e bilanciarsi a vicenda. Per il monte Bello, i lavori prevedevano un allargamento con la creazione di un fronte tenagliato dalla parte del mare; sei stanzoni, anziché nove, tutti destinati ad accogliere fino a un centinaio di soldati; almeno cinque tra magazzini e casematte; due alloggi ufficiali. Nel 1813 iniziarono gli interventi, ma furono sospesi l'anno dopo per la caduta di Napoleone. Parte di essi tuttavia fu portata a compimento, come mostrano le linee attuali, ma non sappiamo se fossero considerati sufficienti a ospitare una guarnigione e venire armata, o restassero inutilizzati.
Tuttavia il camp retranché doveva essere molto più ampio di quanto descritto da Amelio Fara, l'unico che ne ha dedicato uno studio, nel suo Portoferraio Architettura e urbanistica 1548-1877, corredandolo degli splendidi rilievi e progetti a colori delle opere, realizzati dagli ingegneri francesi. Infatti da una relazione di Luigi Federico Menabrea, del 15 novembre 1865, veniamo a sapere che sulle alture del settore centrale dell'isola i francesi avevano eretto opere fortificate di vigilanza. L'autore cita il solo fortino del monte Orello (presente anche nella mappa catastale ottocentesca), ma lascia intendere che ve ne fossero altre. Forse una era sul poggio del Molino a Vento: infatti l'elegante torre del mulino, a cui è stata addossata la parte abitativa, mostra linee di forte carattere militare. E un'altra potrebbe essere l'edificio oggi in rudere sulla punta delle Grotte, nella suddetta mappa riportato con il significativo nome di Torretta.
Tutto ciò dovrebbe bastare a capire che ci troviamo di fronte alla traccia più significativa del breve governo francese sull'isola, ormai vecchia di duecento anni, e purtroppo devastata per diverse ragioni. Un segno importante che dovrebbe essere inserito in un percorso dedicato e tematico, per apprezzare e capire la complessità di questo piano. O vogliamo sbriciolare anche ciò che è rimasto?
Andrea Galassi