L’amico Gaudenzio Coltelli mi ha chiesto di raccontare una storia dei fuochi di San Giovanni a Marciana Marina e, mentre ci pensavo, è saltato fuori dalla memoria e dal tempo uno di quegli fratelli dimenticati con i quali dividi i luminosi, velocissimi e interminabili giorni in cui i bimbi cominciano a annusare la vita. Questa è la sua storia e la storia di un pugno di quei giorni sul crinale del tempo.
Il bimbo nuovo comparve nella nostra fredda scuola, con le finestre alte affacciate sugli ippocastani, un giorno di inverno di quasi primavera. Aveva i nostri stessi pantaloni striminziti, ma una pelle scura come se l’abbronzatura dell’estate non gli si fosse mai stinta addosso, capelli nerissimi, crespi e duri come le pagliette d’acciaio per pulire le pentole, occhi timidi e un sorriso simpatico e sfrontato. Parlava una lingua strana che avevamo già sentito tra i pescherecci al porto e che il mi’ babbo parlava come fosse vissuto lì anche se non c’era mai andato: il siciliano. Ma la parlata del bimbo non aveva sapore di mare: lui veniva dalla Sicilia dei campi di grano e il mare all’inizio lo impauriva per la sua grandezza, anche se poi scoprimmo che sapeva nuotare e tuffarsi come un delfino.
Fu facile farci amicizia: noi ci fidammo subito di lui e lui di noi perché puzzavamo della stessa miseria, avevamo in tasca le stesse fionde di legno e camere d’aria, le stesse cerbottane di canne e gli stessi coltelli. Ma Mimmo, si chiamava così, sapeva fare degli archi con i ferri degli ombrelli come noi non eravamo capaci, ci insegnò e piano piano alla Marina i parapioggia cominciarono a sparire e gli archi e le frecce a moltiplicarsi e nessuno lasciò più un ombrello fuori dalla porta.
Non mi ricordo come si chiamasse davvero Mimmo – e non credo che se lo ricordi nessuno alla Marina* – ma il suo soprannome, che valeva più di un cognome, se lo dette da solo durante una delle uscite per fargli conoscere i posti dove si poteva rubare frutta a seconda delle stagioni. Arrivati al fosso di San Giovanni, dove le nostre mamme lavavano i panni nel guado del torrente, accanto a un porcile che ospitava un maiale gigantesco pronto a diventare salsicce e mallegato, c’era un grosso ciliegio e vicino, in mezzo a una vecchia aia ora scomparsa per far posto a un parcheggio polveroso, c’era un quadrupede al pascolo e Mimmo indicandocelo cercò di spiegarci cos’era perché potessimo tradurlo nella nostra barbarica lingua del nord, disse: «Iddu: Cavaddu». Fu così che per sua e nostra soddisfazione diventò, aggiustando un po’ le parole, Mimmo Iddu Cavallo.
Era allegro come sanno esserlo solo i bimbi poveri, aveva paura dei comunisti come i nostri babbi, perché la su’ mamma era una ferventissima cattolica che non capiva una parola di quel che dicevano quei carusi bianchicci, ma si vedeva che si chiedeva perché i nostri genitori bolscevichi non ci avessero ancora mangiati. La mamma di Mimmo Iddu Cavallo ci sembrava stranissima. A noi sembrava già vecchissima ed era vestita come un frate, con un saio marrone e un cordone bianco, fatto con una cima come quelle che ci si legano le barche al moletto. Alla fine Mimmo ci spiegò che era per un voto: aveva giurato a qualche santo a noi sconosciuto che si sarebbe vestita così per tutta la vita dopo che Mimmo si era salvato da un parto complicato e se il santo le avesse concesso di portare la famiglia in un posto dove poter vivere in pace. E un po’ di pace la trovarono forse nei mesi passati nella vecchia casa di Via Cairoli, con il ballatoio e le scale di granito, dove il sole arriva raramente.
Il fratello di Mimmo Iddu Cavallo aveva dei baffetti come un attore dei film che vedevamo (spesso non paganti), al cinema in via Garibaldi, una coppola in testa e un grosso coltello a scatto col quale ci faceva paura. Lavorava nelle cucine di un ristorante che esiste ancora anche se ha cambiato nome e non voleva che Mimmo andasse in giro con quella feccia forestiera perché, a differenza del fratello piccolo, sapeva che quel paese di mare e turiste straniere e femmine scostumate era solo un passaggio da dimenticare al più presto.
Credo che allora avessimo una decina di anni, quel che so è che era ancora in costruzione la palestra delle nuove scuole medie della Marina e che avevano appena messo i water nei gabinetti e che noi, quasi tutti senza gabinetto in casa, utilizzavamo durante le nostre scorribande di teppisti. Ci portammo naturalmente anche Mimmo perché gli scappava e, sentendolo trafficare dietro l’uscio, spalancammo di botto la porta e lo trovammo appollaiato sul bordo del water, con le gambe divaricate come un pollo che cerca di tenersi in equilibrio su un ramo biforcuto. Era la prima volta che vedeva un water e gli mancavano le istruzioni per l’uso. La sua vergogna fu il nostro crudele divertimento per giorni.
In quella palestra in costruzione ci saremmo tornati in estate per fare qualcosa di criminale che allora ci era sembrato assolutamente normale.
A cominciare da fine maggio il paese si divideva in due per i fuochi di San Giovanni: da una parte il Cotone e dall’altro Il Toro/Atore che si sfidavano a fare il fuoco più bello, più grosso e che durava di più: uno, quello dei cotonesi, sulla groppa degli scogli gialli che proteggono le case a picco sul mare del Cotone, l’altro, quello dei toresi, sulla punta del moletto del pesce.
Per un mese la Marina era territorio franco di ragazzi, di battaglie campali di sassi e chiodi a forcella scagliati con le fionde, di prigionieri che le mamme cercavano invano per ore, di raccolta capillare di cartone legname e di cassette del pesce che andavamo a prendere, con zuffe memorabili, alla vecchia fabbrica di inscatolamento delle sardine che sorgeva tra il cimitero e il mare, di fronte alla torre che guarda il porto.
Mimmo diventò cotonese, onorario e per diritto di povertà, e faceva la guardia con noi a quanto accatastavamo sugli scogli, il materiale da ardere, perché i toresi non gli appiccassero fuoco prima di San Giovanni, in attesa che i veri maestri del fuoco, la famiglia di falegnami Tondi, erigesse con perizia la pira immensa e perfetta che, bruciando fino al mattino dopo, sarebbe stato il nostro orgoglio e la nostra vittoria.
Ma i toresi non potevano certo ammucchiare il loro materiale sulla punta del moletto, piantato come un coltello nel cuore del paese ed esposto alle nostre scorribande, e allora cercavano posti dove immagazzinarlo. Uno, il magazzino di Pomata al Toro, dove ora c’è un condominio, era addossato a un muro di cinta che un anno scavalcammo per dare fuoco a tutto. Allora i toresi cercarono un posto sicuro e credevano di averlo trovato proprio a pian terreno della nuova palestra in costruzione dove Mimmo Iddu Cavallo sperimentò il suo primo water. Avevano fatto male i conti e avevano sottovalutato la nostra incoscienza: arrivammo una notte – per noi non esisteva coprifuoco familiare – e appiccammo il fuoco a tutto, facendo correre i pompieri a sirene spiegate da Portoferraio. Per vendetta i Toresi tentarono l’anno dopo un assalto via mare alla nostra pira in costruzione sugli scogli del Cotone, ma le nostre spie ci avevano avvertito. Li aspettammo per ore nascosti negli scatoloni sotto il sole e quando furono a tiro li scacciammo, con qualche sopracciglio e labbro spaccato e un paio di guzzi affondati.
Mimmo Iddu Cavallo era uno di noi, partecipava ai furti di ceretta da scarpe per andare a smerdare le vetrine, in particolare quella con l’insegna “Pesce fresco da Beppe” e a sfidare il mordace cane Pilù, un bastardo snello e scuro con le zanne affilate, che Antonio, il figlio del pescatore/pescivendolo quasi nostro coetaneo - al quale il soprannome Pesce Fresco sarebbe rimasto incollato anche quando giocava nella squadra di calcio del paese e fino a oggi - ci “fugava” contro molto volentieri. In realtà Pilù e Mimmo Iddu Cavallo avevano fatto segretamente amicizia e i morsi ai garretti erano tutta scena, ma Pesce non lo sapeva.
Era tutto un gioco, un gioco come di gatti e cani, morene e polpi, nel quale tutti sapevano dove stare, da poveri e da ricchi, una Via Pal sottoproletaria, senza eroi e onore da difendere, senza febbri mortali di pallidi soldatini, ma con una voglia di vivere che ribolliva nel sangue e nelle gambe, sfogata in interminabili partite di pallone, in attesa che arrivasse il domani per ricominciare.
Le bimbe non facevano parte di questo mondo. Per uno strano caso, pochi di noi avevano sorelle e chi le aveva faceva finta di niente, ce le teneva sconosciute come fossero un segreto inconfessabile. Con le femmine ci ritrovavamo solo a scuola, divisi per file di banchi e colori di grembiuli. E molti di noi – non io che a scuola ero bravo - erano tenuti nelle file più lontane.
Fu proprio Mimmo a rivelarmi per la prima volta, in un giorno di luglio, che una bimba di Milano, bionda e con gli occhi azzurri, intorno alla quale da giorni aveva intessuto una rete di sorrisi e saluti, gli aveva detto che in realtà non le piaceva lui, ma io e mi accompagnò, spingendomi da dietro ridacchiando, a salutarla. Ci scambiammo i nomi (lei naturalmente sapeva già il mio) e, per un paio di settimane, qualche sorriso e sfioramento di spalle sulla spiaggia e affogamenti in mare per toccarci. E, mentre io e Mimmo perfezionavamo un super-arco fabbricato con un ombrellone “trovato” sulla spiaggia, la bimba milanese e i suoi sorrisi se ne andarono, lasciandoci soli con l’estate e il mare. Quando tornò l’estate dopo, la bimba era ormai una signorina e fece finta di non conoscermi.
E presto, da un giorno all’altro. sparì anche Mimmo Iddu Cavallo, mi avvertì un giorno, mentre la mamma in saio lo sorvegliava da qualche passo, me lo disse quasi piangendo che stava partendo per il Canada, per una città chiamata Montreal, dove parlavano una lingua ancora più straniera del marinese. Ci salutammo come credevamo facessero gli uomini, senza abbracciarci e non promettendo di scriverci, perché sapevamo che non l’avremmo fatto, che il tempo ci avrebbe avvolti e cambiati presto che quell’inverno di ghiaccio e quell’estate di fuochi sarebbero diventate un soffio di vento e polvere della memoria.
Chissà cosa fa oggi quel bimbo scuro che è andato così lontano a cercarsi un’altra vita. Chissà se ogni tanto pensa agli archi di ferro e al mare del Cotone che avvampa nel fuoco. Chissà se nei suoi ricordi di uomo, in questi giorni di prigionia planetaria, è emerso anche per lui dalla foschia del tempo il nostro ricordo e il sorriso di quella bimba bionda di Milano che entrambi avremmo voluto baciare?
Umberto Mazzantini
*p.s.
Mimmo Iddu Cavallo si chiamava, e spero di cuore che si chiami ancora, Domenico Criviello. Grazie a Gianni Paolini, un archivio umano della memoria, che me lo ha ricordato