Sul sentiero che da Chiessi sale al semaforo di Campo alle Serre, in prossimità della curva che tocca il crinale che domina su punta Nera, c'è una deviazione: in pochi metri ci si trova davanti un panorama superbo sulla Corsica, Montecristo e Pianosa. Per il resto, mare aperto. Ecco, se per Giacomo Leopardi l'infinito era il monte Tabor, per me è questo.
Fine dell'inutile parentesi autobiografica. Inizio dell'altrettanto inutile viaggio toponomastico.
Ma quanto è bello il toponimo Chiessi? Attestato al Medioevo nella forma Chiesse, Remigio Sabbadini lo connette al corso “chielzu”, ovvero gelso; Silvestre Ferruzzi lo fa derivare dalle chiese romaniche, i cui ruderi punteggiano le alture circostanti. La mia idea è che derivi dal tardolatino medievale “classis”, ovvero quartiere, riferito a un piccolo agglomerato antico.
La spiaggia del paese si trova in antico con il nome di cala di Santa Maria. La ragione per cui fosse associata al nome della Vergine non può essere riconducibile alla vicina chiesa della Madonna di Loreto, in quanto abbastanza recente, ma forse a una precedente edicola mariana, a cui erano devoti i pescatori e i marinai.
Interessanti sono anche i nomi delle diverse orride vallate della zona, che scavano le aspre pareti rocciose dei monti. Basti pensare al fosso dei Cotoni e alla località Cotete, per avere un'idea di quanto queste pendici sassose incidano anche i toponimi. A quote più alte si trovano il fosso del Vignale (o Vignali), riferito agli antichi e splendidi vigneti terrazzati che caratterizzavano queste zone in passato; e il fosso del Bacile (o Baccile), derivante da “vaccile”, designando il passato pastorizio dell'area. Il fosso del Tofonchino presenta un toponimo interessante ma di difficile interpretazione: Ferruzzi lo fa risalire al corso “tafone”, cioè “masso granitico eroso da fattori idroeolici”. Il fosso dell'Infernetto richiama un termine, inferno appunto, che sull'isola ricorre spesso per fossi incavati nelle pendici e di difficile accesso.
E un altro lugubre toponimo è la valle della Morte, dove scorre il citato fosso del Vignale. Molto probabilmente non va preso alla lettera ma riferito alla mortella, termine con cui all'Elba si designa il mirto (Myrtus communis), pianta comune della macchia. Infatti nella forma Mortella lo ritroviamo a Cavo, e in Mortola a Capraia. Esiste una Vallemorta anche a Calamita, ma qui forse il mirto non c'entra. Sabbadini la riporta come Vada Morta e la fa risalire ad acqua stagnante, ma non sembra una spiegazione del tutto corretta: forse morta va intesa in quanto ampia ma sempre a secco d'acqua. O forse perché si restringe in prossimità dello sbocco al mare, sulla scogliera di punta Ripalte. In questo caso è interessante però trovare il termine “valle” nella forma “vada”, comunissima nel maschile “vado” a Capraia, ma un'unicità all'Elba.
Curioso è il fosso della Gneccarina, ma di difficile decifrazione, forse pesantemente corrotto nel tempo. “Gnacchera” è un vernacolo elbano che designa la grande conchiglia Pinna nobilis; mentre in Corsica indica un crostaceo. Ma appaiono ipotesi poco plausibili. Si potrebbe anche risalire a “sgnacchera”, termine toscano antico che designa l'organo sessuale femminile, forse riferito alla particolare conformazione di una cote del luogo o al soprannome di un'antica possidente. Ma anche questa è un'ipotesi a tentoni.
Sicuramente ad antichi possidenti fanno riferimento i decaduti Piani di Bombotto e Collo di Guglielmo. E a proposito di colline troviamo sia il Capo che la Testa. Il primo troneggia sul paese, con i suoi 300 metri tondi: è segnato da splendidi terrazzamenti e magazzini rurali abbandonati, che rappresentano uno dei siti di archeoagricoltura più significativi (e meno valorizzati) dell'isola. Il secondo è un impressionante pinnacolo roccioso, oggi apprezzato dai free climbers, che evidentemente assume la forma di una testa umana, e culmina nel monte San Bartolomeo, che prende il nome dai ruderi della chiesa romanica. Sopra di essi svetta il poggio del Caprile di Tramontana, che potrebbe stare per “tra i monti” ma anche “oltre il monte”, inteso come quello di San Bartolomeo, appunto.
Il toponimo Testa è oggi vivo solo nella sottostante punta. In antichi documenti essa si trova citata come Testa di Carratigliano o punta della Leccia, in quanto la località soprastante era in passato chiamata Leccia di Carratigliano. Altro bel toponimo di difficile decifrazione: il “caratello” era un antico contenitore per il vino, ma potrebbe essere anche un nome medievale; “carrata” era in passato un'approssimativa unità di misura di quantità o peso.
La precipite costa che culmina in punta Nera, l'estremità occidentale dell'isola, è caratterizzata dalle Pietre Albe: entrambi i toponimi fanno riferimento ai colori delle rocce, ovviamente scuri nel primo caso, chiari nel secondo (alba va inteso nel senso antico del termine, quindi bianca). La costa sud è contraddistinta dal Praticciolo e dal Prato alla Leccia: i prati vanno molto probabilmente interpretati come luoghi di pascolo.
Curioso è il Nidio, pendice soprastante il paese, sui rocciosi fianchi del colle San Bartolomeo. Il termine significa nido, e forse va messo in relazione con un luogo di nidificazione. Personalmente mi piacerebbe pensare di splendide poiane, di cui spesso, proprio quassù, ho ammirato superbe evoluzioni aeree.
C'è una nota curiosa di questi luoghi, ma va osservata sulla mappa catastale ottocentesca: in località la Testa qualche antico addetto al catasto ha disegnato un volto umano barbuto, tra l'altro con non disprezzabile tratto. E qualcun altro, per non essere da meno, ha disegnato un teschio sulla valle della Morte. Ma ha sfigurato, perché il tratto è decisamente più elementare.
Andrea Galassi