Nell'ultimo, condivisibile, articolo di Italia Nostra sull'improvvida uscita dell'apertura di Pianosa e Montecristo alla mercificazione turistica, c'è solo una nota che mi lascia perplesso: in coda si prende uno dei reperti archeologici più belli rinvenuti all'Elba, l'Offerente etrusco, come simbolo di “meravigliose e inesplorate risorse che acquistano risonanza nazionale e internazionale senza che l'Elba ne partecipi”.
Prima di tutto vediamo di cosa stiamo parlando. Il bronzetto fu scoperto da Domenico Agarini nel suo terreno, nel 1764. Risulta però molto difficile localizzare il luogo della scoperta. È oggi opinione comune che il ritrovamento fosse avvenuto alle Trane. Ma non è per niente certo. La fonte più attendibile sulla scoperta è un articolo dell'Accademia etrusca di Ercolano (citato da Michelangelo Zecchini “Isola d'Elba Le origini”, Lucca, 2001, pag. 93 in nota): si fa riferimento a un luogo vicino Rio, al confine tra le giurisdizioni di Portoferraio e Longone. Confine, non va dimenticato, che all'epoca era di stato, tra la Portoferraio del granducato di Toscana e la Longone del regno di Napoli. Più preciso risulta Giuseppe Ninci (“Storia dell'isola dell'Elba”, Portolongone, 1898, pag. 3 in nota) che, pur sbagliando il nome dello scopritore, l'anno e il metallo della statuetta (addirittura la ritiene di oro finissimo), lo circoscrive alla località un tempo detta Cava dell'Oro: ovvero una zona soprastante la Val di Piano, sulle pendici tra il Volterraio e Cima del Monte. Agarini dona l'importante scoperta a Carlo III Borbone, ex re di Napoli e, all'epoca, assurto al trono di Spagna. Viene quindi da pensare che Agarini fosse suddito di tale monarca, e quindi longonese. E quindi si può supporre che la scoperta avvenisse in territorio longonese, anche se niente negava ad Agarini di avere terreni oltreconfine.
In ogni caso l'Offerente elbano va a impreziosire la collezione del museo archeologico di Napoli, ovvero uno dei più prestigiosi d'Italia. Quindi, è vero che l'Elba non ne partecipa. Ma neanche ne sfigura.
Il problema è dove l'Elba ne ha sfigurato: nel dissolvere un patrimonio archeologico di prim'ordine. Occhio, perché inizia il racconto dell'orrore: allontanate i bambini.
Primo capitolo. Come stiamo lasciando deperire siti storici. A Cavo, nonostante le belle parole degli ultimi anni, la villa romana di capo Castello non solo continua a non essere valorizzata, ma i suoi muri continuano a deperire. Il mausoleo Tonietti è uno sfacelo. Le strutture murarie residue di Torre del Giove non sono mai state messe in sicurezza. Molte opere difensive francesi di Portoferraio (monte Bello, ridotte di Saint Cloud e Saint Roch) sono abbandonate o sottovalorizzate. Le torri costiere di Marciana Marina e Marina di Campo attendono restauri. Chiese romaniche sono state utilizzate in passato come caprili (San Frediano, San Bartolomeo, San Michele) o come edifici rurali (San Quirico), con irrimediabili mutilazioni murarie (l'abside della stessa San Quirico fu sventrata per aprirci un forno); e comunque sono fuori da ogni progetto di valorizzazione.
Secondo capitolo (in crescendo di terrore). Come ti dilapido un patrimonio. Remigio Sabbadini, già un secolo fa, si lamentava della distruzione della chiesa di San Bennato, “per ricavarci quattro metri di vigna”. I reperti sottomarini di relitti e ritrovamenti sparsi hanno subìto continue razzie: basti ricordare il caso del relitto di punta Cera, oneraria medio/grande, con un carico stimato di duemila anfore al momento della scoperta, di cui se ne conserva una dozzina. I siti di villaggi fortificati etruschi (praticamente tutti quelli trovati) interessati da scavi clandestini e trafugamenti di oggetti. Gli stemmi marmorei appianei che adornavano chiese (sicuramente due, Santa Caterina e San Michele) e monumenti (sicuramente Torre del Giove) trafugati; quello del forte riese, secondo anziani del posto, addirittura in anni non molto lontani. Il gallo del Giambologna, sulla torretta del molo omonimo portoferraiese, trafugato e mai più trovato. Furto del dipinto dalla cappella della Madonna del Soccorso, nel 1985, e pochi anni fa di opere votive dalla chiesa della Misericordia, sempre a Portoferraio. Smarrimento (o vogliamo essere più espliciti? furto) di un patrimonio immenso e significativo di ex voto da tutti i santuari elbani.
Ultimo capitolo (apoteosi dell'orrore, quindi allontate anche i minori di 18 anni). Il caso Profico. La necropoli capoliverese, uno dei siti archeologici più importanti dell'isola è l'esempio da manuale della distruzione. Non è mai stato imposto alcun vincolo sulla zona, tanto che oggi non rimane niente. La depredazione ha percorso due secoli, dagli anni immediatamente dopo gli scavi di Giacomo Mellini (1816) fino a pochissimi anni fa. Ho avuto testimonianze da anziani capoliveresi, di scavi clandestini addirittura con ruspe, con la distruzione irreparabile di tombe, la polverizzazione di reperti (“li buttaveno nel fosso, tanto so' solo chiozzeri di terracotta nera”) e l'asportazione massiccia di altri, rivenduti in continente (sembra) al mercato nero e (sembra) a cifre interessanti.
Quindi se Domenico Agarini si è limitato a donare un gioiello a chi ha saputo e sa ancora valorizzarlo come si deve, pur se lontano dall'Elba, ha avuto maggiore onore di molti dei suoi conterranei dei due secoli e mezzo successivi.
Andrea Galassi