Leggere è un piacere, ma anche una questione sociale e civile. Ieri sera, 22 luglio, a Rio nell’Elba, l’unico festival isolano dedicato all’editoria indipendente ha fatto sentire la propria voce: la sesta edizione di Elba Book, anche se in breve, si è conclusa con una piazza Matteotti piena di gente (ma alla debita distanza) emozionata dalle parole degli ospiti, di chi crede nella forza aggregante della letteratura.
«Nonostante l’emergenza, Elba Book lo si voleva fare – ha esordito Marco Corsini, sindaco del Comune di Rio – Lo abbiamo considerato tra gli eventi della stagione turistica, constatando il successo e la rilevanza dei contenuti del festival. Elba Book come ambasciatore di cultura continua a essere fondamentale per l’isola. Siamo alla sesta edizione, Lorenzo Claris Appiani rimane tra noi e non smetteremo di ricordarlo».
La cultura giapponese che il Premio Appiani ha indagato quest’anno rivela un senso di vuoto fecondo, che si fa pieno. Il momento della quarantena dovrebbe insegnarci che il tutto sta dentro di noi, che non possiamo prescindere dall’insieme, che ogni nostro gesto soprattutto da ora in poi si rifletterà ancora di più sulla collettività. Eravamo sempre connessi e convinti di essere sempre presenti, ma a una distanza enorme. Elba Book torna in presenza per restituire valore alle connessioni umane.
«Il vuoto che Elba Book ha voluto esorcizzare con la sesta edizione è stato lo stesso che ha segnato i giorni del lockdown – ha precisato Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana – un vuoto di rapporti umani. In Toscana ci sono tante manifestazioni catapultate sul territorio senza alcun legame con esso. Questo festival è radicato, mette a fuoco il contesto a cui appartiene e porta la cultura tra gli abitanti».
La serata è stata interamente dedicata al mestiere dei traduttori, costruttori di ponti e quindi di pace.
«Ho sempre pensato che senza di loro non avremmo potuto conoscere nulla – ha affermato Aldo Appiani – l’atroce vicenda di Lorenzo testimonia il trionfo della violenza, della prevaricazione quotidiana e della cialtroneria di chi ha il dovere di proteggere gli altri. La nostra è una storia di sopraffazione, ma esistono persone, i traduttori, che si immedesimano nell’altro e in altre culture per incontrarsi pacificamente. Capire significa convivere. Per questo abbiamo deciso di indire questo premio». Il premio intitolato alla figura del giovane Lorenzo Claris e promosso dall’Università per Stranieri di Siena, è stato conferito al noto nipponista Gianluca Coci per la traduzione letteraria del romanzo La ragazza del convenience store di Murata Sayaka, edito da e/o.
Si è pronunciata all’unanimità la giuria presieduta dalla docente Lucinda Spera e composta da esperti di fama internazionale quali Mariagioia Vienna, Liana Tronci, Giorgio Amitrano e Antonietta Pastore. A seguire, i giornalisti di Rai Radio3 Loredana Lipperini e Marino Sinibaldi hanno intervistato nel cuore del borgo Ilide Carmignani, amica e traduttrice dello scrittore Luis Sepúlveda, esempio di coerenza e onestà intellettuale per due generazioni.
«Quando conobbi Sepúlveda per la prima volta mi colpirono i suoi sguardi tanto seri quanto assorti. E fu la conoscenza del suo passato travagliato a decifrarli per me: fece la campagna elettorale per Allende sostenendo il motto “un bicchiere di latte al giorno per tutti i bimbi cileni”. Dopo il colpo di stato in Cile di Pinochet fu imprigionato e torturato per anni. Era laureato in drammaturgia, e si vide cancellare l’esistenza da un momento all’altro. Fece lavori umilissimi. Lo stesso Sepúlveda come la moglie fu portato in Svezia da Amnesty e salvato – ha raccontato con grande partecipazione emotiva Ilide Carmignani – Posava lo sguardo su coloro che nessuno guardava. Aveva la capacità straordinaria di impostare relazioni paritarie e non si trattava di impegno, ma di stare in mezzo alle persone. Inoltre ha sempre riconosciuto il merito dei librai, la loro capacità di consigliare un titolo adatto o interessante per aprire nuove prospettive.
Capiva che erano una via feconda per far circolare la letteratura». D’altronde, per dare voce a chi mai ne ha avuta è necessario utilizzare lo stesso linguaggio, mettersi nei suoi panni fino in fondo. Poi ha concluso con una piccola rivelazione sulla traduzione di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare: «Zorba era il suo gatto ad Amburgo, ci sono le foto. La favola è nata per i suoi figli, mescolando quelle che erano le sue radici da esule e le sue aspettative per il futuro con l’arrivo nel porto tedesco, il primo luogo dove si sentì a suo agio. Nella lingua originale Zorba era bolognese, ma gli chiesi il permesso di renderlo napoletano per fargli mangiare gli spaghetti con la pummarola ‘ncoppa».