La marineria elbana dall'età napoleonica alla fine della Toscana Lorenese: la recensione di Maria Gisella Catuogno
Vele e orizzonti
Un veliero all’orizzonte, in rapido avvicinamento per il vento favorevole, capannelli di uomini, donne e ragazzi in trepidante attesa sulla spiaggia, bambini piccoli attaccati alle sottane delle madri e altri, più grandicelli, che ruzzano tra loro rumorosamente rischiando di finire in acqua da un momento all’altro; le campane di San Rocco che iniziano a suonare, prima in sordina, poi più decisamente, via via che il velame si ingrandisce e diventa una gran macchia sull’indaco del mare.
E poi, alla fine di un’attesa che sembra interminabile, sbrigati gli accertamenti di routine delle autorità sullo stato di buona salute dell’equipaggio, mozzo, marinai, capitano toccano terra: finalmente l’approdo, finalmente Rio, dopo settimane di navigazione e la coabitazione forzata in uno spazio ristretto che a un certo punto diventa una prigione, sospesi tra cielo e mare, a pregare il vento buono e la misericordia celeste, lo sguardo volto lontano, a scorgere la fisionomia di quei monti, il profilo di quella costa..
E l’arrivo diventa un visibilio di saluti e abbracci: ai figli, alle spose, alle fidanzate, alle madri in lacrime, alle sorelle, agli amici, ai paesani.
Al carico ci si penserà tra poco: adesso è il momento delle emozioni represse che trovano sfogo, del sollievo dopo tante tribolazioni, di un riposo ragionevole dopo aver spazzato l’Oceano o il Mediterraneo, il Mare d’Azov o il Mar Nero.
Più tardi cominceranno le operazioni di scarico a cui parteciperà gente di mare e di terra. Ed allora, prima sul pontile via via ingombro, poi sulla spiaggia, non distante dai cumuli di minerale in attesa dell’imbarco, infine nei magazzini, arriverà ogni tipologia di merce: grano, farina, pasta, zucchero, caffè, liquori, saggina, barili, fiaschi, damigiane, mobilia, pece, catrame, sapone, lana ed anche, se il viaggio non è stato lungo, bestiame vivo, soprattutto capre e asini.
Dopo una settimana di pausa, indispensabile per il controllo e la riparazione di scafo e di velame, il bastimento sarà caricato di ferro, di vino o di legname e riprenderà il largo, salutato dai fazzoletti bianchi, agitati fino alla sua scomparsa, di spose e di madri.
Tali scene dovevano essere, per gran parte del XIX° secolo, piuttosto consuete nei due paesi a maggiore vocazione marinara dell’Elba, la Marina di Rio e la Marina di Marciana, dove si concentrava la maggior quantità di naviglio mercantile e di lavoratori di mare di
tutta l’isola. Lo sviluppo della marineria elbana, grazie soprattutto alle suddette località, ha dell’incredibile: si passa dai circa cinquecento uomini del 1802 agli oltre tremilacinquecento del 1858!
Questa vicenda entusiasmante e per molti versi poco conosciuta –l’unica importante eccezione è costituita dal bel lavoro La vena del Monte e le vie del mare di Lelio Giannoni- è indagata con perizia e rigoroso scrupolo storico da Gianfranco Vanagolli nella sua ultima opera La Marineria elbana dall’età napoleonica alla fine della Toscana lorenese, appena uscita per i tipi Le Opere e i Giorni, in pagine concettualmente dense per dati e interpretazione dei documenti ed esteticamente molto gradevoli, abbellite come sono da splendide immagini di velieri di tavolette votive –ricordiamo al proposito, dello stesso autore, il pregevole Il Sacro e il mare-
Dal nuovo Quaderno di letteratura arte e storia, l’ottavo, del Nostro, si snoda il racconto di un’evoluzione costante ma irta di difficoltà, per tutta l’età napoleonica, segnata dall’ostilità tra Impero e Inghilterra, che certo non favorisce la tranquillità dei traffici marittimi, e fino ai primi decenni dell’Ottocento, anni contrassegnati ancora da insicurezza, restringimento delle rotte e incursioni barbaresche che costringono gli equipaggi elbani ad abbracciare la corsa e occasionalmente anche la pirateria.
Scomparsa, a partire dagli anni ‘30, la minaccia musulmana, la marineria elbana prende il volo, grazie agli effetti dell’equilibrio internazionale garantito dal Congresso di Vienna, ad una più lungimirante politica economica del Granducato che s’apre all’industria e al commercio e ai richiami d’oltreoceano delle nuove nazioni sudamericane nate dal collasso degli Imperi spagnolo e portoghese. Vediamo così i nostri velieri, nella declinazione, così ben descritta da Gianfranco, di tutte le loro tipologie -dallo sciabecco al leudo, dalla goletta alla tartana, dal cutter al brigantino, dal bovo al brick schonner- allargare sempre di più i limiti dei loro orizzonti, navigando, per il commercio dei grani, fino a Costantinopoli o sui porti del Mar Nero -lo Spavento d’Europa, perché ghiacciati completamente o parzialmente durante l’inverno- oppure spingendosi fino alla Colombia, per portarvi i primi emigranti, così come successe più tardi, con lo stesso carico umano, per le destinazioni Venezuela e Perù.
A fronte di un’affermazione tanto vigorosa e lunga della Marineria elbana, con la sua appendice di una scuola nautica alla Marina di Marciana, cantieri in fermento e società di mutuo soccorso, volte alla tutela di gente tanto esposta a fatiche e pericoli; a fronte del coraggio, dell’audacia e dell’abilità dei naviganti e dei padroni marittimi, altrettanto impressionante, alla sensibilità del lettore odierno, risulta il costo umano di tali avventure commerciali. Per averne un’idea, anche se non si conoscono i dati esatti relativi al comparto elbano, si consideri l’affondamento, in soli cinque anni, dal 1845 al 1850, di ben cinquantacinque bastimenti del Granducato, inghiottiti dal mare insieme ai loro uomini in altrettanti naufragi. Per non parlare dell’esposizione al contagio di malattie epidemiche, quali il colera o la febbre gialla, con conseguenze mortali per i meno robusti e fortunati.
Ma forse l’annotazione più struggente di tutte è l’età di certi uomini di bordo: dieci, undici o addirittura, almeno in un caso, cinque anni.
Bambini che hanno avuto i velieri per casa e la salsedine per sapore d’infanzia; bambini destinati a divenire futuri Capitani coraggiosi.
M.Gisella Catuogno