Il 4 aprile 1944 è una giornata di scirocco, con nuvole lattiginose e umide che incappucciano i monti più alti dell’Elba. In quella tarda mattinata, piegato sulle ginocchia, il trentatreenne pastore Guido Martorella munge le sue capre dentro il caprile delle Macinelle; da lassù le nuvole grigiastre non ostacolano però la vista che disvela le eriche in fiore, la Cote Alta, la Tozza al Pròtano, i Campitini, le Mure, il Malpasso, il Sasso Basso.
Nel frattempo, a 101 chilometri di distanza aerea, due «caccia» statunitensi delle «United States Army Air Forces» decollano dall’aeroporto di Ghisonaccia in Corsica per un volo di ricognizione meteorologica sull’area di Livorno.
I due velivoli, che costituiscono la «Dilute Purple Section», sono pilotati dai giovani sottotenenti Milton Harber e Robert Boyd. Volano in coppia, bassi sul mare per non essere intercettati dai tedeschi.
Alle 11.10, dopo dieci minuti dal decollo, Boyd comunica via radio con la base americana di Ghisonaccia. Ma qualcosa non funziona; la rotta presa non è corretta e, intorno alle 11.30, i due ragazzi si trovano improvvisamente al cospetto di un gigante di granito che sta emergendo dalle nuvole. L’aereo di Milton si schianta sull’altopiano dei Campitini, in alto a sinistra, ma rimane pressoché intatto; quello di Robert trova fine sulla Liscia del Collaccio, in basso a destra, disintegrandosi sulla parete rocciosa.
Le orecchie di Guido sentono un fragore di motori, un disperato grido di metallo, poi lo schianto del sottotenente Milton Harber; lascia immediatamente le capre e corre verso quella tomba di roccia, lui che non era solo un pastore ma anche un carabiniere in licenza. E sa bene che in una situazione del genere bisogna assolutamente avvertire le autorità. Arriva ai Campitini, vede il cadavere di Milton che giace accanto al paracadute, probabilmente apertosi nell’impatto.
Guido lascia tutto al suo posto e, veloce come una delle sue capre, corre al Comando dei Carabinieri. Ma la montagna è piena di pastori, e dello schianto ai Campitini si è accorto anche un altro capraio, che ha quarantun'anni e che anch’egli si precipita sul posto.
Quel morto fa impressione, da sognarselo la notte. Ma quel paracadute è di seta, è bello, è resistente…chissà quanta utile stoffa ci si può ricavare! Ripiegato velocemente il paracadute, guardandosi incessantemente intorno, il pastore corre verso il paese tra rocce, passaggi vertiginosi e cespugli che graffiano le gambe.
Poco dopo, l’ormai macabro luogo conosce un nuovo pellegrinaggio, composto dal pastore Guido, dai carabinieri e da alcuni soldati della Wehrmacht; ma di quel paracadute, neppure l’ombra. I tedeschi si infuriano. Esiste una precisa legge che vieta di asportare o manomettere oggetti militari dei nemici, perché devono essere analizzati ed eventualmente riprodotti. E così gli stessi tedeschi avvertono la popolazione che, se l’indomani non verrà restituito il paracadute, ci sarà un rastrellamento con conseguente carneficina di abitanti di San Piero. E anche di Sant’Ilario. La cosa arriva pure alle orecchie del pastore quarantunenne, che capisce di non avere scelta. Deve consegnare il paracadute ai tedeschi. Assolutamente. Chi se ne frega della seta, dopotutto. E quante vite si possono salvare, soprattutto.
Le prime luci dell’alba rischiarano la sanpierese Piazza di Chiesa. Sembra di vedere, laggiù a destra, una macchia biancastra adagiata sulla Murella dei Pillalleri, il lungo sedile di granito che a quest’ora è deserto. Sì, è un grande sudario di seta.
[Si ringrazia Gianpiero Vaccaro (autore dell’articolo «4/4/44. Ali spezzate») e Stefano Soria]