Non mi sembra esagerato scomodare Joseph Conrad per commentare il nuovo romanzo di Gianfranco Vanagolli, intenso e avvincente come le storie dello scrittore inglese di origine polacca. Vanagolli ci regala un romanzo che si basa su un fatto realmente accaduto nell’Italia dell’immediato dopo 8 settembre ’43, quando l’intero Paese era allo sbando.
Il rimorchiatore Priamar, operativo nel porto di Savona e che proprio dalla fortezza che sovrasta il centro cittadino trae il nome, è chiamato ad una missione in apparenza poco impegnativa. E’ un ferrovecchio buono solo, ormai, per brevi incombenze lungo la costa ligure. Invece viene inviato a Livorno. Ignoto è lo scopo del viaggio.
Da Livorno, dopo aver imbarcato cinque soldati della Wermacht armati di tutto punto comandati da un maresciallo, esso viene spedito a Piombino e poi a Pianosa, nell’Arcipelago Toscano, dove la missione appare più chiara. Si tratta di trasferire quattordici detenuti di quel carcere, che vengono fatti salire a bordo incatenati. Destinazione è il penitenziario di Porto Longone, oggi Porto Azzurro, che però li respinge, come il bagno di Portoferraio e la colonia penale di Capraia, dove la sosta diviene più lunga del dovuto, perché il Priamar, in navigazione verso la Gorgona, deve rientrare in porto a causa di un’avaria.
Il Priamar è sovraffollato: sei membri dell’equipaggio, la scorta di soldati tedeschi, i galeotti. A bordo si mescolano lingue e dialetti. A volte la comprensione reciproca è difficile. Il comandante del rimorchiatore è un soggetto sfuggente, non lega con l’equipaggio. Tra i detenuti, alcuni sono malati di tubercolosi, anche terminali e hanno bisogno di un medico. Sul Priamar si prolunga di giorno in giorno l’attesa che qualcuno arrivi a portare i pezzi per riparare la macchina, perché si possa riprendere il mare. Il cibo scarseggia. Per quanto possibile, gli abitanti dell’isola, un pugno di persone, inizialmente diffidenti, cercano di prestare aiuto. Scatta la straordinaria solidarietà tra la gente di mare, quella che in condizioni di difficoltà assottiglia ogni distanza. Tutti uguali, marinai e detenuti, italiani e tedeschi. Sono le pagine più vibranti del libro. Ogni giorno un canotto viene messo in mare per andarci a pescare. Un galeotto napoletano suggerisce ai marinai, per lo più liguri, come pescare meglio; i soldati della Wermacht partecipano alla pesca. Il pesce è abbondante e viene umanamente condiviso.
Il primo a scendere a terra fu il soldato. Teneva sulle braccia una cesta piena di dentici. Gli occhi gli ridevano.
Poi il Priamar è riparato, seppure sommariamente, e può riprendere la sua odissea sul mare. La destinazione è nuovamente cambiata. Il finale è tragico per i dannati del titolo.
Gianfranco Vanagolli – ça va sans dire – maneggia bene tutti gli aspetti marinareschi del racconto: la navigazione, l’organizzazione a bordo, le modalità di pesca. Ovviamente conosce l’arcipelago come le sue tasche. In più tesse una tela di rapporti umani tra i protagonisti del viaggio che superano le gerarchie, i gradi i ruoli nella vita e i destini. Riesce a far fiorire una delicata storia d’amore tra il giovane mozzo savonese Cleto e Rosa, una ragazza livornese sfollata a Capraia con la famiglia.
Io non concordo con quei critici che affermano che l’immaginazione non aiuta a conoscere la storia. Il dibattito è aperto da più anni tra romanzieri e storici. Penso, invece, che la narrativa, passando attraverso il filtro delle emozioni, dei sentimenti e di quanto si è sedimentato nella memoria popolare, possa rivelare al grande pubblico particolari vicende storiche – in questo caso del Novecento – con maggior forza ed efficacia. Anche quella drammatica dei poveri dannati che avevano lasciato le loro celle nell’“Isola del diavolo” per un destino segnato.
I dannati del Priamar, Edizioni Il Frangente di Verona, è in libreria da pochi giorni. Mi auguro lo leggano in molti.
Riccardo Caldara