Portoferraio è una cittadina bellissima, ricca di storia e di cultura ma non abbastanza valorizzata; anzi a causa di molteplici ed evidenti errori urbanistici è stata penalizzata sempre più.
È arrivato il momento di riportarla ai fasti cinquecenteschi quando Cosimo ne fece uno dei più importanti baluardi dell’epoca.
Da semplici cittadini non possiamo far altro che crederci e non rassegnarci a contribuire alla riabilitazione del nostro paese con qualsiasi iniziativa che possa andare in tale direzione: anche solo scrivendone.
Questo breve racconto, oltre ad essere un piccolo Memoir, vuole stimolare a scrivere del proprio quartiere tutti coloro che ne sentano il bisogno.
Io scrivo di dove sono nato, altri potranno scrivere di Piazza Padella, del Grigolo, delle Viste, delle Ghiaie, dell’Altesi, della Fonderia, della Bricchetteria, del Ponticello, della Consumella o anche semplicemente della via in cui sono nati o hanno trascorso la loro adolescenza.
Ecco Via Ninci come ce l’ho stampata in mente.
Se fai la Porta a terra e passi nel “voltone” scopri Via Ninci, una via che divide il paese dal Ponticello.
Me la voglio ricordare com’era quando ero piccino e fin quando vi abbiamo abitato: in pratica dal 1951 al 1963.
Conosco e cerco di ricordare il dettaglio di chi o di che cosa caratterizzava l’elegante svolgersi della mia strada; sicuramente avrò dei vuoti di memoria che potranno servire magari da spunto per intervenire a chi ne avrà voglia e conoscenza.
Dopo l’accoglienza dei giardinetti con tre aiuole curate con al centro le palme, iniziavano i numeri civici dispari sulla sinistra ed ecco Lele e Luciana Buffetti, amici sinceri anche se poco più grandi e poi Beppa Aldi e la figlia Elena con il suo orto e i suoi alberi da frutta così generosi ... soprattutto nei nostri confronti a dispetto della padrona.
Dall’altro lato, a dare il via ai numeri pari il deposito di bevande del Dini: ah! Quante gazzose gli abbiamo “rubato”....quante corse a nascondersi alle Macerie e giù risate a crepapelle col Dini che minacciava seri interventi genitoriali mai in realtà verificatisi.
Dopo il Dini c’era la casa del Paolini e poi “la Falconetta”, una delle prime strutture di affittacamere.
Tornando di là al nostro stesso civico la famiglia Imparata, nostri grandi amici; ricordo con particolare affetto Tata Cilla, la mamma di Rita e Paolo che mi prendeva sempre in giro perchè odiavo gli zucchini.
Ed ecco il nostro portone: noi stavamo al pian terreno entrando a destra.
Sopra Michela con la figliola Anna e i Ridi dei quali ricordo solo Nando, anche se aveva una sorella, forse di nome Nanda.
Subito dopo di noi c’era un cancelletto e poi una scala con gli appartamenti sopra dove viveva l’avvocato Ciummei e anche la sorella che aveva sposato il La Rocca.
La figlia, Vittoria La Rocca, era mia grande amica e la voglio ricordare come era allora, bionda, magrissima e di grande personalità.
A questo punto in quegli anni si passava tanto tempo alle “macerie”, cosiddette perchè ancora non sottoposte al rifacimento del dopoguerra.
Era una terra di nessuno, da noi utilizzata in particolare per le sassaiole contro quelli che venivano da altri quartieri; anche se, devo confessare, che quando venivano ad esempio quelli del Carmine o della Fonderia noi di solito subivamo; diciamo che erano senz’altro più “sgamati” di noi.
Comunque alle Macerie ci si divertiva come matti ed era il nostro campo di battaglia, anche per le scaramucce intestine.
Da qui poi si incontra il palazzo dove abitava il giudice Gennari amico e compagno di doppio del mio babbo; nello stesso palazzo, ma nella parte sottostante, c’era un bellissimo giardino con un grande fico e ci stavano i Canovaro (Marta e Marisa) e Alba Lupi nostra mitica colf.
Quindi la prima delle due scalinate che noi chiamavamo le scalette che congiungevano la parte superiore della via con quella inferiore.
Ecco ora da questa parte il palazzo dei Serena e dall’altro lato il giardino e l’abitazione del dottor Cignoni.
Quindi l’Agarini e poi il palazzo Razzetto sempre sul lato sinistro salendo, laddove sorge un’altra rampa di scalette di congiunzione con la parte inferiore della strada.
Quindi il palazzo dellla famiglia Giannini e infine il palazzo della Marina con alcuni dei miei quotidiani compagni di gioco: Gianni Durigon, Paolo Bosello e Vincenzo Iovine.
Esattamente di fronte a questo palazzo sull’altro lato della strada si apriva una porta dalla quale il mio zio Prezioso entrava per effettuare le sue saltuarie guardie notturne al deposito della Marina; confesso di non aver mai capito che cosa ci fosse di così importante da dover sorvegliare!
E così siamo arrivati al curvone dal quale inizia la discesa e quindi la parte inferiore di Via Ninci; un lungo tratto perimetrato da un alto muro di cinta che sovrasta la grande area sottostante conosciuta ai portoferraiesi come “la Finanza” a seguito della pluriennale presenza della caserma dei “sugarelli” oggi ormai in abbandono.
E proprio nel punto in cui la discesa si addolcisce la strada si allarga e crea uno slargo che noi battezzammo come il nostro terreno di gioco a pallone: praticamente quando incontravamo gli amici che venivano a giocare con noi lì si giocava “in casa” e difficilmente si perdeva.
Ciò che invece perdevamo era sicuramente il pallone quando immancabilmente arrivava il Fuligni, cioè la guardia.
Alla fine del suddetto campo da gioco si incontrano ancora le seconde scalette e poi ancora più giù le prime scalette che hanno un’ulteriore scalinata che scende verso i viali delle Ghiaie approdando sul ristorante di Pompilio il Guerra.
Infine sulla destra una palazzina della quale non ricordo gli abitanti e poi le abitazioni dei Corsi; ricordo soprattutto Leo, cognato di mia zia Lilia, che aveva la falegnameria proprio al di sotto e che era una persona deliziosa;una di quelle figure che, pur avendo una professione impegnativa, non disdegnava incursioni nella cultura e nell’arte.
Come nelle migliori tradizioni e nei grandi film anche nel caso di Via Ninci il finale è strepitoso: l’ultima tessera del mosaico che ho tentato di ricostruire nella mia mente illumina il proscenio: in fondo alla discesa vedo ancora l’officina di Strofinone, Romano il Brandi al quale non so quante volte abbiamo chiesto di gonfiarci le ruote delle bici e il cui sorriso non ho mai dimenticato.
Leonardo Preziosi