Nell'ottobre 1887 sul più importante periodico elbano, il Corriere dell'Elba, compariva un articolo a firma di un giovane di 22 anni. L'autore si presentava ai lettori: “Studio legge e sono corrispondente della Riforma, della Tribuna, del Telegrafo e di altri giornali, ma solo volontariamente, non già per professione e mentisce chi afferma il contrario. Amo di cuore l'Elba per ricordi infantili e per amicizie carissime e sarei felice se la mia povera penna, né vendereccia, né venduta e la mia povera intelligenza, potessero in qualche modo contribuire all'estirpazione di questa mala pianta dell'esclusivismo paesano, che funesta purtroppo l'isola nostra”.
Iniziò una collaborazione, in cui il nostro firmò un paio di articoli con il suo nome e il titolo di presidente della società di mutuo soccorso di Sant'Ilario, ma diversi altri con lo pseudonimo di Elbano. Ovvero Pietro Gori.
Significativo è l'articolo apparso il successivo novembre, in cui a nome della società operaia che presiedeva prendeva le difese delle vittime di un episodio di brutale repressione, avvenuto a Capoliveri l'anno prima. L'episodio testimonia lo stato di tensione che si respirava in quegli anni nei paesi minerari tra operai e autorità. La pietra dello scandalo fu la rimozione del medico condotto, il dottor Frattini, genero del patriota risorgimentale capoliverese Vincenzo Silvio. Il dottore era molto amato dai paesani, soprattutto i cavatori, essendo sempre stato in prima fila nell'organizzazione della lega operaia locale, e per questo inviso alle autorità. Lo scoppio della rivolta, l'8 dicembre, ebbe futili motivi: “grida rivoluzionarie” di alcuni bambini. Certo è che la reazione dei carabinieri fu sproporzionata: il delegato ordinò addirittura di sparare sulla folla, dirà poi per legittima difesa, lasciando sul terreno due morti e quattordici feriti, e traendo in arresto undici persone.
Il Corriere dell'Elba non era certo un giornale di estrema sinistra: il direttore Cesare Cestari era repubblicano e la linea editoriale strizzava l'occhio agli ideali mazziniani. Tuttavia manifestò sempre vicinanza alle disavventure giudiziarie di Pietro. È significativo questo episodio.
Il 1° maggio 1890 fu organizzato uno sciopero a Livorno, per ribadire il riscatto proletario. Pietro lo ricorderà anni dopo così: “Rivedo la folla varia di operai, di marinai, di studenti di Livorno [...]; rivedo quella gagliarda plebe toscana affluire in un ampio salone, per le cui finestre aperte entrano trionfalmente il sole e la brezza del mar Tirreno – e mille facce abbronzite, e mille e mille occhi […]. Eppoi rivedo gli assoldati di polizia venire a corsa e portare il disordine in quella fraterna armonia, e con brigantesca violenza calpestare ancora una volta il diritto e la libertà del popolo”.
Il neoavvocato Gori aveva da poco aperto uno studio legale nella città labronica, e già la sua attività politica ferveva con conferenze e articoli: sul Sempre avanti! del 6 aprile scrisse, oltre alla poesia Inno socialista, il saggio L'ideale, dove difendeva la filosofia materialista dalle critiche mazziniane. Ma fu lo sciopero il culmine della sua azione. Pietro ne fu ritenuto l'ispiratore e il sobillatore degli scontri tra gli operai e le forze di polizia. Fu accusato di ribellione ed eccitamento all'odio fra le diverse classi sociali insieme ad altre 27 persone tra studenti e lavoratori.
Venne istruito il processo, e Pietro chiese a Filippo Turati di difenderlo, per dare al caso una rilevanza politica nazionale. Ma il leader socialista rifiutò. Si riaffidò quindi al collegio di un processo precedente, con Enrico Ferri e Angiolo Muratori in prima fila, ma questa volta l'accusa riuscì a spuntarla: nonostante gli scarsi elementi d'accusa fu condannato a un anno di carcere. Fu arrestato il 13 maggio e tradotto nel carcere dei Domenicani di Livorno, nella cella numero 32, dove compose la poesia Primo maggio, e il 24 agosto venne trasferito in quello di San Giorgio, a Lucca.
Successivamente la cassazione annullò la condanna, ma non prima che Pietro avesse scontato già sei mesi di galera, inflitti in appello. Analogo senso di beffa si rileva nella ragione dell'annullamento della pena: non si poteva considerare reato un comizio politico, tenuto oltretutto in spazi privati. Il 9 novembre Gori tornò a essere un uomo libero. Si recò a Rosignano, nella casa di famiglia, accolto dalla gioia di duecento compaesani, che pochi giorni dopo gli dedicarono un banchetto conviviale.
Ma dicevamo del Corriere dell'Elba. Infatti, oltre che dagli amici e i compagni di lotta, viva indignazione venne espressa da molti elbani, primi fra tutti i collaboratori del Corriere dell'Elba, che nei giorni del processo di primo grado scrivevano: “Malgrado le difese splendide, elevatissime dell'onorev. Ferri e di tanti poderosi campioni del foro, il sacrificio del dott. Pietro Gori, davanti al tribunale penale di Livorno è consumato. La sentenza lo condanna a un anno di reclusione e a mille lire di multa. Questa notizia se addolorò i moltissimi amici e ammiratori dell'egregio giovane all'Elba, non sorprese certo alcuno, poiché nessuno differentemente sperava dal giudizio dei magistrati, veduto e considerato il sistema di governo che imperversa sulla pubblica cosa in Italia. Si volle punire l'ardito ed eloquente conferenziere che in una riunione di socialisti propugnava idee socialiste”. Tra le voci di protesta sull'isola si alzò anche quella dell'avvocato Rodolfo Manganaro: “Pietro Gori, il tuo paese natio viene con me oggi, in quest'aula, a darti un saluto, a portarti il conforto di una dolce parola”.
p.s. Buon compleanno, Pietro.
Andrea Galassi