Anni fa un anziano capoliverese mi disse una cosa che mi ha sempre colpito: “Sai perché gli elbani so' diventati così individualisti e imbastarditi? Perché quand'ero bambolo per conservà la roba da mangià la mettevamo fori dalla finestra, d'inverno. Da un giorno all'altro, in casa ci siamo trovati il frigorifero. Senza passà dalla ghiacciaia, ha' capito?” Avevo capito, sì. Voleva dire che il turismo aveva imborghesito gli elbani, senza un'adeguata consapevolezza del cambiamento. Una sorta di morte sociale.
Negli anni '60-'70 il turismo di massa è ormai realtà. Le elite economiche hanno però una nuova frontiera: la vacanza all'estero, in quelle località à la page, un tempo appannaggio solo di famiglie reali e aristocrazia. Come la Costa Azzurra. Non sia mai, per i ricchi, confondersi con la folla sudata e caciarona dei turisti di basso ceto. Come quella che affolla l'Elba.
I ricchi cercano la bellezza altrove? E allora l'Elba rilancia. La pubblicità dell'isola cambia completamente obiettivo: Napoleone finisce nell'archivio, come buona parte delle attrazioni di tipo culturale. Ora si punta sulle immagini di spiagge da sogno e paesaggi mozzafiato. L'Elba promette a buon mercato tutto quello che ha una Costa Azzurra (e forse molto di più).
Gli elbani capiscono che turismo di massa e cultura sono cose diverse. Da una parte c'è una classe lavoratrice che in una vacanza cerca solo, comprensibilmente, il riposo dal lavoro di un anno. Ma dall'altra c'è una borghesia a cui la vacanza culturale fotte poco o niente. Non a caso Pier Paolo Pasolini, proprio in quegli anni, sferza la borghesia italiana come la meno acculturata d'Europa (e oltretutto parliamo di anni in cui la televisione, specchio della stessa borghesia, parlava in prima serata di Eschilo e Pirandello, come ricorderà Umberto Eco).
Ma nell'archivio, quello più labile della memoria, ci finisce anche un patrimonio culturale di tradizioni e folclore elbano, frutto della società contadina e popolare, di valore inestimabile. La ricchezza (attenzione, non il turismo: molti turisti avrebbero invece apprezzato questo folclore) si abbatte come una mannaia su tradizioni antichissime, come le feste di San Giovanni (24 giugno), o molto partecipate come la festa dell'uva alle Ghiaie, per non considerare tutti quei retaggi, scampagnate e celebrazioni, apparentemente minori, ma i cui compositi e articolati riti dimostrano come la nostra isola sia sempre stata una cerniera culturale tra il Mediterraneo del sud e quello del nord. Gli elbani, ormai irrimediabilmente imborghesiti, vedono tutto ciò come vecchiume contadino. Qui non ci sono capri espiatori o scusanti: la colpa di questa perdita è stata solo nostra.
Per fortuna un recupero di parte di queste tradizioni (le feste dell'Innamorata e dell'uva, per esempio) è avvenuto dagli anni '90. Sono state attualizzate intelligentemente, segno che un miglioramento culturale c'è stato e si accorda con il turismo. E potrebbe promettere meglio per il futuro.
Negli anni '80-'90 cambia qualcosa, con un turismo che sfonda quota 3 milioni di presenze, arrivando nel 1999 a toccare gli 8 milioni, con un fatturato complessivo annuo che l'Apt (Azienda di promozione turistica) stima tra i 1000 e i 1500 miliardi di lire. E non dimentichiamo mai quel sottobosco di evasione fiscale, che fa lievitare le cifre e non è mai stato realmente studiato. L'Elba è senza discussioni una delle regine turistiche italiane.
Ma ogni estate l'isola mostra i suoi limiti. Innanzitutto l'acqua, con riserve idriche che non riescono a reggere il consumo, costringendo l'impiego di navi cisterna, le famose bettoline. Una quantità enorme di rifiuti che fa scoppiare le discariche, e talvolta ne crea di abusive. La piaga degli incendi. Un traffico che inizia a diventare opprimente.
E soprattutto perde la sua innocenza. Ovvero quella dell'Elba sicura, del “si può parcheggiare l'auto aperta e con le chiavi nel cruscotto, tanto chi te la ruba”; quella del “si può uscire per farci un giro e lasciare la porta di casa aperta, tanto chi vuoi che entri”. Quell'Elba che oggi può sembrare da fiaba, ma che già uno della mia generazione può assicurare che era assoluta realtà. E perde la sua innocenza perché il benessere e la ricchezza hanno un costo. Altissimo. Quello del disagio sociale di chi non ce la fa a stare coi “vincenti”. Quello dell'insofferenza a un finto paradiso. Quello che si chiama microcriminalità.
Qualcuno inizia a farsi qualche domanda: può un'isola reggere un turismo così massiccio? Non bisognerà ripensare qualcosa? Sì, è necessario che ci sia un cambio di passo. Lasciamo perdere la questione della destagionalizzazione: il fatto che se ne parli da decenni dimostra che non ci sono intenzioni serie.
Il cambio di passo ci sarà, e delinea il turismo di oggi. Ma anche questa fase avrà le sue luci e ombre, come vedremo nel prossimo capitolo.
Andrea Galassi
Foto dall'Archivio di Antonio Mattera