Se c’è una cosa che mi dà fastidio da leggere nelle guide turistiche dell’Elba è quando un suo paese viene descritto come "pittoresco borgo di pescatori", primo perché nella vita dei pescatori non c’era e non c’è niente di pittoresco, secondo perché quei Paesi spesso hanno ospitato pescatori molto tardi e i porti e gli approdi servivano a trafficare vino, granito e ferro col continente e il mondo.
Gli elbani erano – e ancora in parte sono – gente selvatica e mite che si era rifugiata sui monti e che aveva paura di quel mare di pirati saraceni e pescecani. Dal mare veniva il pericolo e la salvezza dalla fame era nei campi, nelle vigne e nelle castagne, tra i massi montani nei quali rifugiarsi quando sul mare baluginavano le scimitarre e sventolavano le bandiere con la mezzaluna musulmana, mentre la mura crollavano e i paesi e le pievi di granito venivano messe a ferro e fuoco. Furono altri i pescatori che sentirono parlare di questo mare pescoso dove le reti e gli ami erano scarsi e, da Napoli e Genova, arrivarono alla Marina di Marciana, per costruire le case del Cotone arrampicate sugli scogli, altri parlavano spagnolo e vennero a contendere il pesce ai delfini e alle tacche di fondo nella baia calma e murata di Porto Longone, i Medici Granduchi chiamarono i rais di Favignana a insegnare la pesca del tonno ai loro nuovi sudditi che parlavano un fiorentino bastardo, già contaminato dal livornese e dal corso.
I ponzesi arrivarono a Marina di Campo dopo la guerra e cominciarono a pescare come solo loro sanno fare in un mare ancora seminato di mine e dove belavano ancora le ultime foche monache, che si diceva risalissero le vigne per rubare procanico e aleatico. Allora c’era chi era ancora convinto che le murene, con i loro denti aguzzi, fossero la progenie dell’amore tra i gronchi e le vipere, nella spuma bianca tra lo scoglio e il mare nelle notti di luna piena.
Allora come ora tutto o quasi quel che nuota, striscia, si muove in mare, e a volte vola fuori dall’acqua con un balzo, aveva un nome terrestre, come le margherite, i grandi granchi che in continente chiamano granceole, che con le loro lunghe zampe pelose e i carapaci bitorzoluti e appuntiti erano poco più di un fastidio per le reti e che presto diventarono prelibatezze a caro prezzo per i ristoranti.
I pescatori usciti affamati dalla guerra mondiale più di quanto ci erano entrati ritenevano i contadini fortunati: avevano terra loro sotto i piedi, filari di vigne che danno vino e orti che danno cipolle e pomodori, una casa, legna per l’inverno e un asino nella stalla; i pescatori cercano zeri e frugaglie nel mare freddo d’inverno, con gli stivali riempiti d’aliba secca per non crepare i piedi di gelo e d’estate cavalcano albe e cavalloni alla ricerca di pesci bianchi. Solo più tardi spuntarono da sud le zaccarene panciute dei siciliani e si cominciò a pescare sardine e acciughe contendendole alle balene che ne ingoiavano quanto una barca con una sola boccata.
Ma per i pescatori cambiò poco, la paga restò divisa in parti decrescenti per proprietà e rango e lo scuro del pescatore difficilmente riusciva a mantenere una famiglia.
Poi le grandi reti seccarono il mare, il turismo cambiò tutto e i pescatori diventarono bersagli di fotografie e fornitori di ristoranti. Sempre di meno, proprio come i contadini che avevano invidiato e che non zappavano più le vigne come loro non zappavano più il mare.
No, i pescatori non sono pittoreschi. Sono il mare e si salvano solo se si salva il mare.
Umberto Mazzantini [da Enjoy Elba 2020]