Questa storia si potrebbe sintetizzare come l'incontro tra Pietro Gori e un futuro premio Nobel. Ovvero Dario Fo. Essendo il buon Dario nato nel 1926, evidentemente non può aver conosciuto di persona l'anarchico elbano, morto nel 1911. L'incontro va quindi inteso nel senso di scoperta.
E l'incontro avverrà nei primi anni dell'artista lombardo. Lo racconta nella bella autobiografia sulla sua infanzia: “Il paese dei mezaràt” (Feltrinelli, Milano, 2002). Dario sente parlare di persone che chiamano anarchici da bambino, portato dalla sua famiglia a un concerto nella vicina Svizzera (il padre è capostazione di una fermata a pochi chilometri dalla frontiera). Siamo in pieno fascismo, e Dario assiste a un concerto di musiche considerate stralunate per un italiano di allora: “Io di certo non mi rendevo conto, ma in quel momento stavo assistendo a una delle prime esibizioni di musica jazz e blues in Europa”. La scena doveva essere fantastica, quasi surreale per quegli anni. Immaginate: un'orchestra di suonatori anarchici italiani, due musicisti neri di ukulele e una donna con un particolare violino chiamato hot. E tutto in una chiesa.
Ma sarà il secondo episodio, un anno dopo, che farà conoscere meglio a Fo il mondo anarchico, e in particolare il nume tutelare di esso, Pietro Gori. È una delle parti più emozionanti dell'autobiografia (pag. 36-37), che val la pena di essere riportata:
“Gli anarchici stavano facendo trasloco a loro volta. Il governo italiano s'era lamentato con quello svizzero per il fatto che permetteva a dei sovversivi di starsene proprio lì, affacciati alla frontiera: dovevano far fagotto, andarsene fuori dal Canton Ticino e anche dalla Svizzera. Mio cugino era molto arrabbiato e l'ho sentito imprecare: 'Bel paese questo! Pulito, ordinato... è proprio il cesso più pulito d'Europa! Se la fanno sotto a ogni coglione che sbraga ordini!'
“Dai loro discorsi sono venuto a scoprire che quella non era la prima volta in cui gli anarchici dovevano subire una simile violenza. Già una quarantina di anni prima, al tempo cioè del famoso anarchico Pietro Gori, una gran quantità di rifugiati politici era stata costretta ad andarsene da Lugano. Il re e il governo del tempo avevano fatto pressione sul parlamento elvetico perché a quei sovversivi fosse negato il diritto di asilo.
“Così, ricordando quella prima diaspora, siamo arrivati al Caffè Lungolago […]. Siamo usciti... c'erano dei camion che trasportavano la roba degli indesiderati. Prima di partire, si sono messi in fila lungo l'imbarcadero, di là in fondo al lago si vedeva l'Italia...
“'Adesso cantano,' pensavo io, 'batteranno il tempo con le mani e accenneranno una danza come l'anno scorso in chiesa.'
“Con mia sorpresa hanno invece intonato un'aria senza enfasi, quasi dolorosa, con la quale davano l'addio al lago e agli amici che erano venuti a salutarli. C'era della gente lì del Canton Ticino, ma anche qualcuno che veniva da fuori, dagli altri cantoni. Appena si son mossi i camion e il pullman, hanno fatto segni di saluto con le braccia e qualcuno ha perfino applaudito. Stavo per applaudire anch'io, ma Bruno mi ha fermato afferrandomi un braccio: 'Non ti muovere. Ci sono poliziotti in borghese arrivati dall'Italia... è meglio che non ci scopriamo!'
“Dopo tanti anni, finita la guerra, ho sentito un sacco di volte intonare quella canzone degli anarchici che fa: Addio Lugano bella Oh dolce terra pia Cacciati senza colpa Gli anarchici van via.
“In varie occasioni m'è capitato di cantarla a mia volta, ma non mi è mai riuscito di eseguirla per intero: a un certo punto mi si sgranava la voce e potevo solo fingere di cantare. Ogni volta mi ritrovavo lì, sull'imbarcadero, bambino, che tentavo di applaudire e mio cugino che mi bloccava e mi sussurrava: 'Cerchiamo di non dare nell'occhio!'
Emozioni che oggi purtroppo, all'Elba, non prendono più a nessuno ogni volta che si pensa a Pietro Gori. Anzi per alcuni è meglio non pensarci proprio, cancellandolo dalla memoria di uno spazio cittadino.
Andrea Galassi