Un anziano capoliverese, classe 1921, mi raccontava un quadretto di vita famigliare di quando era bimbo, quindi anni '20. Di giorno accompagnava la mamma alla fontana di piazza oggi Matteotti. Fontana ripristinata una trentina d'anni fa come attrazione turistica, ma in passato punto nevralgico del paese, in quanto unica possibilità di attingere l'acqua, essendo di là da venire l'acqua corrente nelle case di tutti. E grande occasione sociale per le donne del paese. La sera, quella brocca di acqua era sul tavolo, quando il babbo rientrava da una dura giornata in miniera. E la frase consueta della mamma al marito era: “Ti voi lavà o voi mangià?” Spesso era l'esigenza primaria a prevalere. E quindi, al diavolo l'igiene personale.
Ho scelto di cominciare con questo aneddoto perché sia chiaro a tutti che quei minatori avevano un corpo. E quindi esigenze. E queste comportavano scelte quotidiane sacrificanti. Che spesso mettevano a dura prova anche la stessa morale di una persona. Se non capiamo questo fin da subito, capiremo poco delle vicende dei capitoli successivi.
Quel corpo, dunque, costretto a un lavoro durissimo come quello minerario, aveva bisogno di calorie. Che i magri pasti quotidiani assicuravano al limite. Quell'acqua serviva infatti per una cena che perlopiù era a base di zuppe di verdure. Che venivano spesso dall'orto, che quasi tutti i minatori avevano. Se un parente o un amico era andato a pesca, e questa era andata bene, si poteva rimediare anche una zuppetta di pesce. La frutta? Solo di stagione e anche questa dal proprio orto, quindi dalla tarda primavera a fine estate. La carne? Solo durante le feste come il natale. Qualcuno più fortunato, un po' più spesso, ma a costo di un sacrificio economico enorme per un cottimista di miniera. Dolci? Se erano semplici, un corollo per esempio, ci potevano stare; ma per quelli più elaborati, come la schiaccia briaca, vedere alla voce carne.
I beni di prima necessità erano assicurati da una cooperativa aziendale, presente in tutti paesi minerari, che garantiva prezzi più contenuti di quelli dei negozi privati, per non gravare troppo sui magri bilanci delle famiglie operaie. La concessione di essa fu a costo di dure lotte e scioperi.
Il primo atto fu nel 1900, quando i 1200 minatori entrarono compatti in sciopero per il salario e i cottimi. Sembra che l'agitazione si risolvesse con l'intervento di Pilade del Buono, che introdusse dei “buoni di lavoro”, con i quali la società Elba garantiva i commercianti nel pagamento dei debiti fatti dagli operai. Questi si lamentavano con i bottegai per l'alto costo e la pessima qualità dei viveri acquistati, essendo costretti quindi a comprare a credito. I commercianti risposero finendo di vendere a credito, lamentandosi a loro volta che con questo sistema subivano perdite del 50% sul valore delle merci vendute.
Per quanto trovata una soluzione, il risentimento tra minatori e bottegai andò avanti ancora per moltissimi anni. Una guerra tra ultimi e penultimi. Occorre infatti capirci su cos'era l'Elba di quel primo scorcio di Novecento: una società in larga parte povera, in cui la borghesia (perlopiù piccola) poteva rappresentare al massimo il 15/20% della popolazione. Per gli standard attuali quegli operai erano poco più che sottoproletariato, e molti negozianti qualcosa di poco più che proletariato. Siamo lontani anni luce dai lavoratori autonomi quali ceto medio dell'Italia di oggi.
Scioperi per la richiesta di una cooperativa di consumo si susseguiranno per tutto il 1901. La soluzione finalmente giunse con lo sciopero del luglio 1902, che coinvolse i 900 cavatori di Rio. La serrata durò ben 18 giorni, con momenti di tensione e il ferimento di un operaio, ma fu un successo. Tra le rivendicazioni, fu ottenuta appunto l'apertura di una cooperativa di consumo, gestita dalla società Elba, la prima sull'isola, a Rio Marina. Successivamente ogni paese minerario fu dotato di uno spaccio.
I vantaggi di un negozio di questo tipo erano che le mogli dei cavatori potevano acquistare a credito, scalabile sulla busta paga del marito. In una società dove il denaro girava pochissimo in mano alle famiglie, era un indubbio vantaggio. Ma c'era il rischio del serpo. Detta così può sembrare una battuta. Invece era una faccenda maledettamente seria. Se gli acquisti superavano il salario (e non era raro, dati la magrezza di esso e le grosse esigenze di una famiglia di un operaio con diversi figli), il povero cavatore si ritrovava il foglio di busta paga barrato da una riga rossa serpeggiante (da qui il termine serpo) che significava niente soldi.
Teniamo bene a mente questo dato. Stiamo parlando di persone, che ci precedono di appena tre o quattro generazioni (sostanzialmente i nostri nonni o bisnonni), che lavoravano esclusivamente per guadagnarsi l'indispensabile per vivere. Nient'altro. Nessun lusso, nessun bene o extra poteva essere lontanamente preso in considerazione. Donne e uomini che giocavano una partita con la sopravvivenza, a somma zero.
Del serpo non ci parla nessuno studio o documento storico, se lo conosciamo è per le testimonianze dei cavatori. E non è l'unico aspetto, come vedremo nei capitoli successivi. E questo perché per i borghesi che quegli studi li conducevano, la vita quotidiana degli ultimi era qualcosa di lontano, non identificato.
Ritorniamo alla giornata tipo del nostro cavatore. Il vero e proprio pasto era la cena. Per il resto doveva sacrificarsi a una magra colazione e, a metà giornata quando era in miniera, al convio. Ovvero quella mezz'ora che i padroni concedevano per il pranzo. Se vogliamo chiamarlo pranzo. Ecco come lo descrive Ezio Luperini: “un pezzo di pane bagnato nell’acqua e per companatico cipolla, aglio e zenzero” (“Tra i lavoratori dell'Elba 1900-1918”, Genova, 1972, pag. 5).
E poi c'era il vino. L'isola lo produceva in grande quantità, e quindi era economico, questo sì alla portata di tutte le tasche. In larga parte di qualità discutibile, per dirla all'elbana “cancherone” e “gnorante”, ma i cavatori non andavano per il sottile. Il vino per quegli uomini non era un semplice accompagnamento. Era anch'esso fonte di calorie, riempiva la pancia e annebbiava il cervello quel tanto che bastava per far scorrere più leggero quello schifo di lavoro con lo zappone e per spingere il carrello pieno di minerale.
Andrea Galassi