Questa storiella è un fatto vero.
Anche se non è rivelata l’identità del protagonista, è probabile che qualcuno lo riconosca lo stesso.
Lui era a Porto Azzurro, in piazza con alcuni amici la sera di un Martedì Grasso (all’epoca al carnevale c’era sempre un fango di gente), quando ebbe un sussulto.
Si batté la mano sulla fronte ed esclamò: “Uh! Me lo so’ scordato, devo andà a telefonà!”.
“O a chi?” gli domandò uno dei suoi amici.
“A una”.
“’Un sarà mica la tedesca che quest’estate?”.
Lui accennò un sorrisetto, e l’occhiolino che strizzò lasciava intendere che l’interlocutore avesse fatto centro.
Altresì rilanciò: “Oggiù, venite anche voi che tanto faccio presto”.
I telefoni cellulari non esistevano, così andarono tutti a Capoliveri, a casa di sua mamma, per telefonare in Germania (chissà poi che popò di legnate di bollette).
L’antefatto è d’obbligo.
L’estate prima lui aveva lavorato in un Hotel del posto e ad un tratto, nella clientela, figurava una coppia di tedeschi di mezza età: Helmut, facoltoso industriale abbondantemente sovrappeso, pieno di vizi (e, vedremo subito, fatali stravizi) e Rita, avvenente signora sempre in ghingheri ed ancora molto affascinante, sebbene non più di primo pelo.
La sera del debutto, i coniugi tedeschi uscirono dall’albergo dopo cena e, quando rientrarono, nel cuore della notte, alle tre in punto, c’era da affrontare un imprevisto.
Helmut era posseduto da una sbornia colossale, stentava a reggersi in piedi e Rita aveva bisogno di aiuto, da sola non ce la faceva, la mole del marito era spropositata.
Sicché Rita chiese a lui, che lavorava lì come portiere di notte, se poteva darle una mano a mettere il ciclope a nanna, a sbollire.
Lui eseguì il compito senza battere ciglio.
Seconda notte, stessa ora, stessa scena.
Eh, ma a quel punto lui (con lei) aveva già preso la mira.
A parte occhiatacce, ammiccamenti e qualche leggero strusciamento, non combinò però nulla.
Terza notte, idem con patate: lui rimise a sbollire il briaco e poi, con la signora, vi lascio immaginare.
Adagiò il tedesco a bordo letto lasciando spazio a sufficienza che tanto, conciato com’era, il ciclope non si accorgeva minimamente del tourbillon a neanche un metro di distanza.
E così via, per tutto il soggiorno all’Elba (due settimane) il tedesco, tutte le notti, rimediava sbronze su sbronze, disumane (per gli altri, per lui era routine), puntuale come un orologio svizzero e, per la legge del contrappasso - la pena è l’opposto del peccato - altrettanto puntuale la consorte ribolliva e si concedeva al portiere di notte.
C’è più giorni che salsicce, recita un adagio locale: le vacanze della coppia tedesca finirono, ma la signora sganciò miracolosamente il numero di telefono su un foglietto.
Perché poi, se tra i due c’era un abisso? Lei straniera, ricca e bellissima, lui quasi il contrario.
Cosa se ne faceva allora lui di quel numero di telefono?
Semplice: lui voleva, anzi doveva, mantenere il più possibile saldo il rapporto perché, putacaso la signora si fosse ripresentata all’Elba, potevano essere altri quattordici giorni consecutivi (leggasi: consecutivi) di infuocate notti.
Ed ora ritorniamo all’inizio, alla telefonata.
Perché il linguaggio a letto sarà anche universale, ma al telefono no. Decisamente no.
A meno che uno non sia un fuoriclasse: un tocco di magia et voilà.
Andato clamorosamente a vuoto, forse perché in italiano basilare, il commovente tentativo di rievocare il kamasutra che fu, per rinverdire la passione lui aveva dato fondo a tutto il suo estro e, al telefono con la signora, aveva composto una specie di Haiku - un Haiku vero e proprio non è, in quanto non rispettoso, assolutamente, del numero delle sillabe - striminzito ma potentissimo, in capoliverese stretto, che faceva così:
mmm
Rita
‘nna gane.
Lo recitava come un attore consumato, ripetendolo come un mantra ed alternandoci sospiri, silenzi e gemiti con inarrivabile maestria.
Le parole però, quelle erano e quelle restavano. Non una di più, né una di meno.
Un rantolo, un nome proprio e poi vabbè,
Così il poeta, resosi conto che il contenuto, sia pur esaustivo nella sostanza, era un po’ scarso nella forma, pescò il jolly dal mazzo e brevettò l’Haiku a coppiola.
Un genio.
Signori, prendete fiato e leggete lentamente e profondamente perché, all’apparenza elevato al quadrato, in realtà il principio era innalzato all’ennesima potenza. L’Haiku a coppiola dunque:
mmm, mmm
Rita, Rita
‘nna gane, ‘nna gane.
L’ultimo verso, in un crescendo rossiniano, era a denti digrignati, pensa te.
Cotanta delicatezza, evidentemente, doveva aver solleticato corde sensibili all’altro capo del telefono, oltreconfine, poiché la signora si invalvolò e nemmeno pochino: vai a sapere che tipo di alchimia si era creata tra i due.
E, al cospetto di questa romantica serenata, la signora tracimò, mostrando irrimediabilmente una loquacità allucinante.
Parlava, parlava di continuo - rigorosamente in tedesco - non la smetteva mai, attaccò su un notiziario che pareva Radio Berlino.
L’auditorio dei suoi amici riuscì a captare un misero vocabolo di italiano (il nome), e pure storpiato.
Lui annuiva col capo e inizialmente balbettava “de” - precursore dei tempi: suggeriva cioè alla signora il suffisso (.de) che di lì a qualche anno sarebbe comparso in qualsiasi sito internet a matrice tedesca - poi rispondeva cinguettando un più canonico “ok, ok” (a coppiola), ma siccome era poco, nel senso di parola troppo corta, ad un certo punto cominciò a tuonare “o’clock, o’clock”, che però non ci incastrava una sega perché, come ben saprete, ha tutt’altro significato.
Sicuri?
E se invece il sommo poeta avesse colpito ancora?
Magari intendeva racchiudere, in inglese e con una parola sola (o’clock, appunto), questo concetto elegante, raffinato, di classe: “Ma certo che me li ricordo quegli amplessi focosi, tutte le notti alla solita ora, precisi come le merde che si pigliava il tu’ marito”.
Fatto sta che la telefonata andava avanti così, per minuti e minuti, tra spasimi capoliveresi, borbottate teutoniche ed assurdi o’clock di rimando.
Dopo quasi mezz’ora uno dei suoi amici, spazientito, appoggiò la mano dove si riponeva la cornetta del telefono, facendo così volutamente cadere la linea, e gli fece in ghigna:
“Scusa un po’ eh! Ma di quello che ti dice lei, te cosa capisci?”.
“Nulla”.
Michele Melis