Riassunto delle puntate precedenti. Un detective sta indagando sulla presunta scomparsa e omicidio dell'elbano. Sospettati i parenti. Il capoliverese è uno dei massimi indiziati. Ma non è il solo.
Il longonese è l'unico, insieme al ferajese, ad avere una data di nascita precisa: l'8 maggio 1603. Quello che vorrebbe dimenticarsi è il padre. Ovvero il più famigerato puttaniere dell'epoca: lo spagnolo. Oggi costui lo conosciamo come un tranquillo vecchietto. Ma in gioventù è stato un dongiovanni incallito, seminatore di figli in mezzo mondo: in Toscana ne ha almeno tre o quattro, contando solo i legittimi.
Il rapporto tra i due è stato burrascoso fin dalla nascita. Innanzitutto il longonese ha messo le cose in chiaro sul suo nome. Si è scelto lui stesso quello che gli ha lasciato in dote il romano, quando ai suoi tempi si era costruito da queste parti un rimessaggio per le sue barche. E lo spagnolo? Che si desse il nome alla sua caserma, ma non alla casa del figlio.
Altro punto fermo imposto dal longonese: tu coltiva la tua carriera militare e cuocitela in tutte le salse che vuoi, io scelgo un'altra strada. E si è scelto due titoli nobiliari di ben sommo lignaggio: il contadino e il pescatore. Così mentre il padre se ne stava su quel cuccolo di promontorio, inginocchiato a pregare l'amatissimo Santiago e a intirizzirsi le giunture alle grecalate, il nostro stava a ridosso, sulla spiaggia, tracannando l'ottimo vino che produceva e godendosi le grigliate di pesce che pescava.
Purtroppo però in questo caso qualcosa è andato storto. Perché il padre, tra i molti difetti, era anche vieppiù rissoso con gli altri piantagrane in armatura europei suoi parenti. E mal gliene incolse al longonese. Perché le zuffe, due volte col francese e una con l'austriaco, il genitore aveva la malacreanza di portarle anche in casa del nostro eroe, di natura invero pacifica. Con danni ai suoi orto e vigna, devastati e saccheggiati dagli invadenti litiganti.
Quando ha compiuto i 344 anni, il nostro giovane scavezzacollo ha preso una decisione capitale. Dopo che per circa un ventennio si era ubriacato, come peraltro tutti i suoi parenti, di vino nero (errore gravissimo, dato che gli elbani il vino nero lo hanno sempre guardato con sospetto), risvegliandosi dalla sbornia e tornando al suo ottimo vino bianco, ha declamato, per far dimenticare quello che chissà perché considerava uno sbaglio tremendo: “In verità vi dico, ardisco mutare appellativo a casa mia in Porto Azzurro”.
Stupore in famiglia. “E come voresti fatti chiamà, ora? Portazurese?”
“Ehm... no... cogitavo piuttosto portoazzurrino”.
Il primo a trasecolare è stato il capoliverese, quasi scivolando dal suo seggio di 167 metri: “Ma se fino a un'ora fa ti chiamavo vaporino! O 'un dì favate!”
“No, santo diavolone! È la mia magione e la appello come mi aggrada! E da domani nomatemi portoazz...” Ma accorgendosi che stava per essere zimbellato peggio dell'odiato cugino capoliverese, esclama: “O insomma, chiamatemi un po' come cazzo vi pare!”
Perché il longonese è così: umorale e volubile. La sua storia è fatta da scatti d'umore di cui poi si pente presto. E che dimostrano di come, anche se dà a vedere il contrario, sia profondamente tradizionalista nei suoi costumi.
Gli esempi sono tanti, e basta pescare nel mucchio. Il suo titolo nobiliare di ottimo vignajuolo lo ha coltivato per tre secoli; poi con uno scatto d'umore (“voglio fa' turismo, sacripante!”) lo molla; e poi ultimamente (e fortunatamente, viste le fortune che gli ha sempre portato) lo riprende. Un altro capriccio, e il titolo nobiliare di pescatore se ne va in fumo per sempre (per fortuna, però, appaltato al fratellastro napoletano). Gli viene l'uzzolo di fare il cavatore; resiste un secolo e mezzo, e poi dice: “Sai che c'è, 'sto mestiere da riese e capoliverese 'un fa per me!” Quando la caserma passa dallo spagnolo al napoletano,e poi al toscano, tenta anche la carriera militare; ma se nasci pacifico, è meglio lasciar perdere. Poi la gestione passa al tranquillo zio italiano, e il longonese gli fa: “Zi' 'talià, io 'un ti dico di barà la caserma, ma trovamo un accomodamento”. E lo zio ci mette un carcere, e trova un posto da secondino al nostro eroe. Voi pensate che duri? Macché, altro scatto d'umore, e di fare il secondino non gli va più, che lo facciano altri.
Occorre dire che tutti questi capricciosi cambi di veste da lavoro denotano un pregio che eccelle in famiglia, ma nel longonese tracima: si adatta a tutti i mestieri, se la cava in ogni circostanza. Se il ferajese non gli avesse scippato l'industria, si sarebbe messo volentieri anche la tuta da operaio metallurgico. Per stufarsi poco dopo, s'intende.
Col turismo sembrava fossero finiti gli anni delle irruenze giovanili, e il longonese avesse messo la testa a posto e trovato con la nuova attività, se non una nuova nobiltà, almeno un compromesso tra gli abiti nuovi e la tradizione. Macché, l'umoralità è la sua dannazione. Sembra che anche il turismo lo abbia stufato, perché, tornatogli il ticchio del cavatore, gli salta in testa di sventrare una collina di bel valore paesaggistico. E, conoscendolo, siate certi che quando sarà un uomo di mezza età si ristuferà del mestiere di cavatore, ma soprattutto si pentirà di questa ferita ambientale. Si costruisce un porto, e vuole un traghetto, poi non lo vuole più, poi il porto va allungato, poi allargato, e il molo più lungo, e il molo più corto, e più spostato a est, e più a ovest... niente, non trova pace. Si stufa del colore di una spiaggia, e lo cambia; si stufa anche del nome, e lo cambia; se potesse dolcificare il mare c'è da scommettere che si stuferebbe anche che l'acqua marina è salata.
Oltretutto questa mania di cambiare nome alla casa e parti del giardino è la sua fissazione. Non è chiaro perché ce l'abbia tanto con la toponomastica. Forse perché a scuola il maestro di questa bella disciplina lo bacchettava a morte, e lui se l'è legata al dito. Così si può anche fare l'esempio di Barbarossa, uno dei punti più belli del giardino: fino a un secolo fa portava l'onorevole nome di Suvereto. E lui che fa? Lo cambia col nome di un ammiraglio ottomano. Di vaglia, per carità, ma che obiettivamente c'entra un ette con casa sua. E qui emerge un altro aspetto del carattere del longonese, tipico degli ultimi anni.
È infatti diventato anche vanesio, a tratti superando perfino il ferajese. Il che è tutto dire. Per questo difetto sembra quasi che si vergogni di appartenere alla famiglia elbana, e che cerchi in tutti i modi di distinguersi da essa, fin quasi a disconoscerla. Arrivando addirittura a cercare parentele improbabili, come quella col monegasco. Perché il longonese non vuole solo gli abiti firmati, adesso li vuole haute couture.
Ma, come Fantozzi invitato dal megadirettore alla cena con la nobiltà, anche il nostro rimedia miserande figure. Perché al monegasco, di imparentarsi con un tipo del genere, gli va poco, tanto da formulare un auspicio poco incoraggiante: “Mais où vas tu sans parapluie?” Un po' perché (ci credereste?) si stufa, e il suo tradizionalismo alla fine prevale, e capisce che coi suoi amati/odiati parenti elbani in fondo ci sta bene.
Conclusioni. Ai fini della nostra indagine sulla presunta scomparsa e omicidio dell'elbano, gli scatti d'umore del longonese potrebbero essere un movente per una lite sfociata in tragedia. Va anche detto, a sua discolpa, che sembrano essere più autolesionistici, con estremo danno al suo ambiente e alla sua cultura, che orientati verso un membro della famiglia. Tuttavia poiché ambiente e cultura sono estremamente importanti, anche in funzione sociale, non si può scartare il nome del longonese dalla lista dei sospetti. Dunque da tenere sotto controllo.
Andrea Galassi