Quando Ficasecca andò sulla luna
Riccarda, che tutti chiamavano Riccardina perché era la donna più piccola di Marciana, era alta poco più di un metro e stava in via della Rena, fuoriporta di Sant’Agabito, in bilico su un costone affacciato sulla Marina, il mare, l’Elba e la striscia azzurrina del continente e, dall’altra parte, su Monte capanne, verde, rosso e grigio di castagni, a seconda della stagione.
Riccardina piccina piccina stava lì, appesa in quella casa sospesa sulla bellezza con una delle sue due sorelle (l’altra si era sposata alla Marina), Iva era alta e segaligna per quanto Riccardina era piccina, e maligna per quanto Riccardina era buona.
La pensavano così anche le quattro capre barbute che erano una delle poche ricchezze delle sorelle che però vantavano discendenze francesi, lombi di capitano napoleonico, Richard Sergent, che era arrivato all’Elba e a Marciana al seguito di Napoleone e delle sue disavventure guerresche e delle sue avventure galanti.
Riccardina e Iva avevano ereditato da Ricard una croce d’oro con tre gemme a rappresentare la bandiera francese: uno zaffiro blu, un diamante bianco e un rubino rosso. Il dono dell’imperatore ai suoi aiutanti che le due sorelle non vendettero mai per alleviare la loro povertà, e che fino alla marte di entrambe rimase stata custodita in una credenza.
Le due sorelle e la loro preziosa croce di guerra se ne stavano lì, a Marciana fuor di Sant’agabito, vicino alla fonte e al sentiero che portava agli orti e ai castagneti e che porta ancora in vetta a Monte Capanne. Le due sorelle e le quattro capre, ad aspettare un matrimonio o il becco.
Ficasecca era un ragazzo allampanato, lungo lungo, con un portamento un po’ inclinato da una parte, come se i sogni che aveva nel cervello lo facessero sbandare per un vento interno, un peso leggero. Uno che quando passava per le vie murate e l’erte scalinate di Marciana non sentiva nemmeno le risatine e il dileggio, troppo preso a guardare rondini e rondoni, passeri e colombi che gli passavano sulla testa.
Riccardina era così piccina che non la voleva nessuno, Ficasecca era così lungo che aveva la testa tra le nuvole e che non lo voleva nessuno. Alla fine si presero loro e si sposarono. E le capre barbute quel giorno fecero più latte per festeggiare le nozze di due persone buone e balzane come capretti.
Ficasecca e Riccardina misero insieme due solitudini dentro una casa piccina piccina, senza acqua corrente, e con un buco sul muro, fuori dalla finestra, per svuotare il cancaretto. Ficasecca e Riccardina, che si erano trovati tra gli scarti erano felici l’uno per l’altra, lui faceva quel che poteva e come poteva, lei, assennata e intelligente, badava alle capre, alla casa e che quell’uomo stralunato e gentile uscisse con le scarpe allacciate, la camicia abbottonata giusta e il basco in testa.
Erano la fortuna l’una dell’atro e l’altro dell’una, e lo sapevano.
Poi, un pomeriggio freddo di novembre comparve una Luna gigantesca che, come un dirigibile, solcava il cielo spinta dal vento verso Monte Giove. Una Luna grande come non ce n’era mai state, con la faccia butterata, vicina, appoggiata sul monte e che dal monte si poteva toccare.
Ficasecca andò da Riccardina e disse: «Vado sulla luna e torno». Riccardina, seduta sulla sua sedia con le gambe segate perché altrimenti non avrebbe toccato terra con i piedi, gli disse: «Ma che fai… Non anda’. Sta pe’ fa’ brutto tempo. Guarda che fa freddo, copriti bene e portati il convio che il viaggio è lungo». Ma Ficasecca rispose: «No, faccio presto, vado è torno, è qui sul monte, vicino, dove portamo le capre».
Ficasecca preparò il tascapane, ci mise un coltello, un tozzo di pane, una manciata di castagne secche da biasciare, una bottiglia di vino, un pezzo di formaggio di capra e lo zufolo di canna che si portava sempre dietro e con il quale soffiava via i suoi pochi pensieri cattivi. Si chinò come un giunco a baciare Riccardina sulla sua sedia e poi si incamminò sulla via penitenziale della Madonna, contando ogni cappella della Via Crucis mentre faceva un buio rischiarato quasi a giorno dalla luna, come un’enorme lampione a gas.
Ogni cappella un segno di croce, fino quasi agli scalini del santuario, dove prese un sentiero e, dopo essersi accertato che la grande vasca di granito di Monte Catino, appoggiata su una fessura del monte a picco su Pedalta, ballasse ancora, dopo aver visto i tetti di Marciana bianchi sotto il chiaro di luna, risalì gli stretti tornanti del Giove per raggiungere la luna che lo aspettava in vetta.
Fu lì, quasi in cima a quel monte popputo, che lo colse improvviso il temporale che inghiotti la luna, la terra e il monte e tutto diventò buio tra pioggia e grandine. Ma ogni tanto, per un attimo breve, i fulmini illuminavano rocce e alberi, come lampi di magnesio, come quella volta del giorno del suo matrimonio con Riccardina, quando si fecero l’unica foto della loro vita, con il fotografo che guardava perplesso quella strana coppia e poi, quando la sviluppò, la foto dove tra lo sposo e la sposa c’era troppo spazio verticale in mezzo.
Questo venne in mente a Ficasecca in mezzo alla tempesta: l’unica foto al muro della loro casa, sotto il tetto dove batteva ora la stessa pioggia e grandine che battevano su di lui che aveva perso la Luna, che se n’era scappata spaventata dal quel temporale spaventoso. Venne in mente Riccardina e sperò che se ne stesse bene al riparo, seduta davanti al fuoco del camino, sulla sua piccola sedia senza quasi zampe.
Quella notte Ficasecca non tornò a casa. «Forse – sperava Riccardina – è riuscito a saltare sulla luna, chissà che ha trovato…».
La mattina dopo lo andarono a cercare su un monte ripulito dalla tempesta e, quando tutti credevano che fosse davvero saltato sulla Luna e qualcuno diceva: «Bisognerà che aspetti il novembre di un altr’anno perché la luna sia così vicina al monte da poterci zompare giù», una capra barbuta chiamò disperata, quasi in vetta a Monte Giove, sul precipizio che dà sulla Madonna del Monte e guarda la Corsica. Ficasecca era lì, in una grotticella come una buca di granito, raggomitolato come un bimbo nella pancia della mamma, un bimbo alto alto, con lo sguardo verso il cielo.
Il tascapane non lo trovarono, forse Ficasecca lo aveva lanciato sulla luna prima che la ventolata la avesse allontanata troppo dal monte.
Riccardina da quel giorno diventò, e lo restò per tutta la vita, la più piccola vedova dell’Isola d’Elba, tutta vestita di nero, con le sue vecchie capre e la sua piccola casa, senza più quell’uomo lungo lungo, quel pollone di castagno balzano inclinato dal vento della poesia.
Riccardina restò nella sua casa piccina che era diventata troppo grande e in un letto troppo lungo e troppo freddo. E, fino a che non è volata anche lei sulla luna, ha sempre pensato che Ficasecca avrebbe fatto meglio a darle ragione: «Per anda’ sulla luna e torna’ bisogna coprissi bene e portassi il convio».
Umberto Mazzantini
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