“Da anni le persone dicono ‘basta con gli ebrei’. Tra poco sui libri ci sarà una riga, poi neanche quella” questa l’amara considerazione di qualche giorno fa della senatrice a vita Liliana Segre sulla Giornata della Memoria che oggi celebriamo.
Se è comprensibile la stanchezza di una donna reduce dall’orrore di Auschwitz che, ad oltre novant’anni, è costretta a muoversi con la scorta per difendersi da certa imbecillità umana, è altrettanto auspicabile che il suo grido di dolore ci scuota e sia pungolo a ricordare di più e meglio la Shoah: per noi e per la società in cui viviamo, ma soprattutto per chi verrà dopo di noi, che non avrà testimoni da ascoltare, ma solo fatti storici da leggere, studiare e meditare.
E non trinceriamoci dietro l’espressione: “Di genocidi ce ne sono stati tanti…” perché quello perseguito con accanimento dal nazismo contro la popolazione ebraica è un unicum, non ha uguali: per il numero di persone coinvolte – sei milioni – e per il carattere scientifico e tecnico della sua pianificazione, in cui i metodi più all’avanguardia, i più efficaci ritrovati della chimica, come ad esempio il pesticida Zyclon B usato come gas asfissiante, erano al servizio dello sterminio.
Anche relativizzare quella tragedia inenarrabile, ricorrendo al paragone con l’attuale stato d’Israele nei suoi rapporti con il mondo palestinese, è un’operazione antistorica: i due piani vanno distinti e la critica alla politica odierna del governo israeliano non può scalfire o minimizzare l’atrocità di quanto accaduto ottant’anni fa.
Ricordare la Shoah – con lo strazio di uomini e donne avviati al lavoro forzato o ai crematori; di neonati appena schiusi alla vita e di bambini di pochi teneri anni destinati a diventare fumo; di vecchi tormentati e derisi subito indirizzati all’annientamento – è doloroso a livello emotivo ma anche faticoso a livello intellettivo: perché ci sembra impossibile che tutto questo sia potuto accadere, in Europa, a pochi decenni dal bagno di sangue della Grande Guerra e come corollario della Seconda, con i suoi sessanta milioni di morti tra civili e militari; e perché faremmo volentieri a meno di ammettere l’abisso del male di cui è capace l’uomo.
Ma questo è stato. Non ci possiamo sottrarre.
Scrive Primo Levi nella poesia “Shemà”, (“Ascolta”), che fa da introduzione a “Se questo è un uomo”:
“Meditate che questo è stato: vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore/stando in casa e andando per via,/coricandovi alzandovi;/ripetetele ai vostri figli./O vi si sfaccia la casa,/la malattia vi impedisca,/i vostri nati torcano il viso da voi//”.
Sono parole forti, che impongono un obbligo morale e che invocano la maledizione di fronte all’indifferenza e alla negazione: mali del nostro tempo, purtroppo, accanto alle tragedie collettive che ancora ci assillano.
Maria Gisella Catuogno