Nell'80° anniversario del bombardamento di Portoferraio, Maria Gisella Catuogno ci ha inviato un suo racconto scritto di qualche tempo fa, che ripercorre le tappe di quel tragico settembre 1943 all'Elba... e che volentieri riproponiamo ai nostri lettori.
E’ una giornata fresca e luminosa per il vento di maestrale che assicura un cielo sgombro di nuvole e trasparente come cristallo. Verso il santuario di Monserrato, nella campagna di Porto Azzurro, già dalla mattina si sono avviati fedeli che vogliono celebrare la Festa della Madonna e passare una giornata all’aria aperta, all’ombra dei pini circostanti. E’ l’otto settembre 1943 e questo accade da quasi due secoli. Altrove, la giornata scorre tranquilla, malgrado il tempo di guerra, ma si sa che qualcosa bolle in pentola e chi è meno sprovveduto sta con l’orecchio attaccato alla radio. L’Elba, la “sentinella avanzata dell’impero”, come la chiama Mussolini, fin dal 1931 è infatti considerata zona di rilevante interesse strategico e protetta da una numerosa guarnigione militare. All’improvviso l’Eiar sospende le normali trasmissioni e si ode ben distinta la voce del maresciallo Badoglio che si rivolge alla popolazione: Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi provenienza.
Il proclama finisce così, non una parola di chiarimento sulle ultime sibilline parole. E mentre tanta gente esce di casa, eccitata e perplessa, con la voglia di festeggiare la fine dell’alleanza coi nazisti e dunque una più vicina conclusione del conflitto ma anche con il timore per quello che “il tradimento” può scatenare nell’ex alleato; e mentre le piazze dei paesi si riempiono e le chiese sciolgono le campane, il comandante della guarnigione di Portoferraio, il generale Achille Gilardi, si attacca al telefono per avere disposizioni, per sapere cosa ci si può attendere ora. La sua paura è la vendetta tedesca e occorre prepararsi al peggio.
Infatti, già il giorno seguente, in un’ alba di perla immacolata, la batteria di Capo Enfola deve aprire il fuoco contro sei motozattere tedesche cariche di truppa, già penetrate nel Golfo di Procchio, e le costringe a riprendere il largo. Sulla costa, chi veglia tira un sospiro di sollievo. Le ore scorrono lente nell’eccitazione e nei commenti di quanto successo e nell’ansiosa preoccupazione di quanto può accadere adesso. Intorno, la natura distilla dolcezza, nonostante i tempi grami: nell’aria il profumo dei fichi maturi, nelle vigne i grappoli dorati, quasi pronti per la vendemmia, ovunque la luce del cielo estivo. Ma i volti degli uomini e delle donne sono segnati dalle privazioni degli ultimi anni, la magrezza è la cifra comune, soltanto i bambini sono più in carne, per loro ci si leva di bocca il poco pane che c’è.
A sera, poco dopo un tramonto di fuoco, puro distillato di rosso e d’arancio, il cielo di Portoferraio è violato da ricognitori della Lutwaffe: immediata è la risposta delle armi contraeree della nostra flotta che riescono a metterli in fuga. I militari responsabili della difesa dell’isola non hanno dubbi sul comportamento da tenere nei confronti degli ex alleati: anche se gli alti comandi latitano, anche se in continente e fuori d’Italia domina il caos e all’euforia dell’annuncio dell’armistizio sta subentrando la morsa dell’apprensione sul futuro, il comandante del presidio dell’Elba resisterà.
Giunge, tinta di rosa pastello, la mattina del dieci: la superficie piatta del mare è interrotta da tre corvette e una torpediniera che, lasciando la rada di Portoferraio, si avventurano nel canale di Piombino per intercettare qualche naviglio nemico. Contemporaneamente, dalla costa meridionale, le batterie sparano su altri mezzi navali tedeschi in avvicinamento. C’è grande agitazione, grande inquietudine sia tra i militari che tra i civili: le notizie passano di bocca in bocca, da un paese all’altro, scavalcano le colline festanti di vigneti e le piccole piane coltivate, penetrano nelle povere case dei pescatori e dei minatori come nelle comode abitazioni dei “signori”, spargendo a piene mani semi di paura; si guarda il mare e il cielo, perché il pericolo non può giungere che da lì. Trascorre nell’incertezza un’altra giornata. La notte porta un sonno inquieto, pur nella mitezza dell’aria estiva che fa tenere ancora aperte le finestre delle camere e scansare il lenzuolo che non serve. Le prime luci destano pigramente gli isolani: presto si viene a sapere che il generale Gilardi ha intenzione di ignorare l’ordine di cessare ogni resistenza, ricevuto dal Comando della 215.a divisione costiera da cui dipende. I commenti sono dispersi dal ronzio, che avvicinandosi, diventa un lugubre assordante lamento degli aerei tedeschi sopra l’Elba: migliaia di manifestini piovono improvvisamente dal cielo di cristallo, assolutamente libero da nubi. Si raccolgono in fretta i foglietti a terra, si leggono ansanti, a voce alta, a chi sta intorno.
Il governo traditore Badoglio ha abbandonato sia Voi che l’Italia, dopo aver recato infinite disgrazie alla Vostra patria. L’aiuto garantito ad esso da parte degli anglo-americani è naturalmente mancato, dato che dopo un tradimento fallito, nessuno vuole avere da fare con dei traditori. Anche i Vostri camerati sul continente si sono divisi dai traditori. Essi hanno o deposto le armi e sono stati congedati nella loro terra nativa o si sono aggiunti volontariamente alle forze armate germaniche. Seguite il loro esempio Ogni resistenza è senza alcun senso. Nei pochi casi, in cui le truppe italiane hanno opposto resistenza alle forze armate germaniche, esse hanno subito gravissime perdite, specialmente in seguito ad attacchi massicci dell’aviazione germanica. Invece dell’infallibile ritorno in patria, volete subire la morte senza alcun senso e giudizio, per un governo traditore, che per di più è vilmente fuggito? All’approssimarsi di truppe tedesche sia dal mare che dall’aria, mostrate la bandiera bianca e mandate subito incontro dei parlamentari, perché non venga sparso di nuovo ed inutilmente sangue italiano. Giacché ogni eventuale resistenza verrebbe infranta fino alla completa distruzione con l’impiego concentrato di tutti i mezzi bellici.
La risposta all’invito tedesco di riprendere la lotta a fianco dell’antico alleato è il fuoco delle postazioni antiaeree, che libera momentaneamente il cielo. La concitazione è grande, in tutti. E’ possibile che Davide tenga testa a Golia? E se Golia vince, che succede? Sono gli interrogativi che condiscono la magra cena e gli sbadigli della sera. Seguono giornate febbrili: inutilmente si chiede un aiuto alleato nella zona di Piombino, viene respinta una nuova proposta di resa, si forma un Comitato di Concentrazione Antifascista, molti cittadini danno l’assalto al Comando Marina per procurarsi le armi e continuare la resistenza. E infatti le artiglierie isolane prendono di nuovo sotto tiro alcuni natanti tedeschi e sui muri delle case di Portoferraio compaiono manifesti che rassicurano la popolazione sulla possibilità di sopportare un lungo assedio perché i viveri non mancano e i suoi soldati sono intenzionati a difenderla: a questo scopo è requisito un piroscafo carico di derrate alimentari diretto in Corsica. Per la terza volta il Gilardi oppone il rifiuto di resa a parlamentari tedeschi, giunti da Piombino già occupata.
L’alba del sedici colora di petali di rosa il cielo del capoluogo isolano: la vita riprende, lentamente, i suoi ritmi consueti, sebbene tanti si siano rigirati nel letto quella notte, vegliando, come nella premonizione di qualcosa di terribile.
All’improvviso, nella tarda mattinata - il sole già alto, le donne alla ricerca di qualcosa da mettere in tavola, per il consueto, frugale pasto quotidiano- dal cielo piove l’inferno. Sette stuka vomitano sulla città grappoli di bombe che esplodono ovunque, spazzando via in un attimo, come un uragano devastante, progetti, speranze, timori, preoccupazioni, odi, amori, rancori e affetti: annientano tutto quello che si oppone alla loro cieca furia, sazie soltanto quando lasciano sulla piazza, per le vie, sulla soglia di casa, un centinaio di vite, fra i civili, e qualche altra decina tra i militari, oltre a macerie, abitazioni sventrate, edifici pubblici completamente distrutti, chiese e cimiteri danneggiati, e la polvere che s’alza come un sudario sui morti e sui vivi disperati, senza più fiato da gridare e lacrime da piangere. Oltre alle bombe, sono piovuti manifestini che minacciano nuova morte dal cielo, se entro le quattro del pomeriggio non perviene al Comando germanico di Piombino la dichiarazione di resa. La batteria delle Grotte ha inutilmente tentato di reagire all’incursione, la fionda di Davide contro la tempia di Golia. Ma questa volta Golia vince: la batteria è inesorabilmente attaccata e distrutta. La resa è inevitabile. La sera che cala non attutisce il pianto, più di cento famiglie sono in lutto.
Il giorno dopo, un battaglione della seconda divisione paracadutisti, trasportato da una squadriglia di Junkers Ju. 52, proveniente dall’aeroporto di Ciampino, viene lanciato sulla costa settentrionale dell’Elba, nella campagna intorno Portoferraio. Gli immensi ombrelli che si aprono sopra la piana di S. Giovanni, a poca distanza dalle saline, dalle case, dalle stalle dei contadini, appaiono agli elbani ancora terrorizzati dal bombardamento del giorno prima, immensi, mortiferi fiori maligni. Poco dopo, i tedeschi arrivano anche dal mare. Con estrema rapidità vengono ultimate le azioni di rastrellamento dei militari italiani e di occupazione delle caserme. Il comandante Gilardi è catturato insieme a quasi tutti i suoi ufficiali e tradotto in Germania dove viene sottoposto a processo e rinchiuso in un lager: tra le accuse che gli vengono mosse, c’è anche quella di non aver mostrato, con la sua ostinazione, abbastanza sensibilità nei confronti della popolazione civile e del capoluogo elbano. E’ l’inizio dell’occupazione tedesca dell’isola, destinata a durare nove lunghi mesi, e a risolversi in maniera non certo meno traumatica, per le modalità con cui avverrà la liberazione. La resistenza elbana è durata otto giorni: il presidio ha mantenuto coesione interna e capacità operativa più di ogni altra unità del nostro esercito sul suolo nazionale.
Il quel convulso settembre del 1943, appena cinque giorni dopo l’occupazione tedesca, un’altra tremenda sciagura si abbatte sull’Elba. La gente non ha ancora rialzato la testa dagli ultimi tragici avvenimenti, l’uva è ancora da vendemmiare e l’estate agli sgoccioli, quando viene affondato, mentre sta tornando da Piombino con trecento persone a bordo, ormai vicino alla rada di Portoferraio, il piroscafo “Andrea Sgarallino”. Marco, un ragazzino di Rio Elba, che si trova a passare dalla strada di Nisporto lo vede inabissarsi: non crede ai suoi occhi, se li stropiccia bene, prima di tornare a guardare, poi grida, piange, singhiozza e di corsa, più svelto di una lepre, ritorna al paese, chiamando aiuto e urlando a pezzi e bocconi quel che ha visto. Qualcuno si affaccia alla finestra, chiede chiarimenti, spera che la fantasia visionaria del bambino abbia ingigantito l’accaduto, in un battibaleno sono tutti fuori, sugli usci e in piazza. Lina si mette le mani nei capelli, grida come una pazza: sul piroscafo ci sono suo fratello Tullio e sua cognata Rosetta, le hanno lasciato Pietro, il loro bambino di due anni, che la giovane zia ha coccolato per tutto il giorno. Purtroppo qualche ora dopo arriva la conferma: il piroscafo è stato silurato da un sommergibile inglese, che ha lasciato il porto di Malta una settimana prima, per una missione nelle nostre acque. Lo Sgarallino è stato considerato un naviglio ausiliario al servizio dei tedeschi, malgrado il comandante appartenesse alla Marina militare italiana e il primo ufficiale fosse un elbano militarizzato. Il comando era dunque italiano, e a bordo c’erano soltanto alcuni soldati tedeschi per il controllo dei passeggeri. Dunque, tragico errore o colpevole superficialità da parte degli Inglesi? Il dolore, la disperazione, la commozione si spargono per l’Elba: tutti hanno qualcuno da piangere, parenti, amici, conoscenti. Da quel giorno, Pietro, che non vedrà più i suoi genitori, sarà chiamato Tullio dai paesani, come il padre. Delle trecento persone a bordo, se ne salveranno quattro soltanto.
L’autunno e l’inverno successivi sono per l’isola uno dei più difficili di tutta la guerra, soprattutto per la l’assoluta penuria di cibo. Passato il periodo della frutta estiva, dei fichi, dell’uva, delle prugne, delle pere che calmano momentaneamente i morsi della fame; consumata la poca verdura di stagione, i pomodori, le zucchine, i peperoni degli poveri orti di guerra, l’agricoltura locale non dà quasi più nulla. La pesca, dapprima vietata, riprende e regala qualche sollievo: si mangia pesce povero, gli zerri, in particolare, portati al mercato con mezzi di fortuna, dal Cavo a Rio Marina, da Marianna e Cesira, le due popolari e chiassose pescivendole del versante orientale. Appena arrivate in paese, non fanno in tempo a scendere le scale del mercato e a posare sui banchi le cassette col pesce vivo dentro, che come attratti da una calamita, escono dai vicoli laterali gli acquirenti. Ma c’è il razionamento: sul cartellino numerato rilasciato dall’ufficio annonario è segnata la composizione del nucleo familiare; ne tocca un tanto a testa, non si scappa. Il pesce finisce senza aver accontentato tutta la fila. Si ritorna a casa avviliti ma con la speranza di farcela l’indomani, quando la vendita ricomincerà a partire dal numero successivo a quello dell’ultimo acquirente. I rifornimenti della farina e delle altre dettare alimentari avvengono da Piombino con un piccolo bastimento a motore che garantisce la panificazione per un giorno: il naviglio deve attraversare il canale con ogni tempo. Una volta, un tremendo scirocco che gonfia il mare sollevando altissime creste di schiuma e rende bassi e opprimenti i nuvoloni, costringe l’equipaggio, ormai in vista della costa elbana, a causa di un’avaria al motore, ad alleggerire il carico in coperta, gettando in mare diversi sacchi di farina. Qualcuno, da terra, si accorge della manovra. È necessario recuperare il prezioso carico, prima che finisca sugli scogli. Leonello e un amico fiorentino sfollato in paese non esitano a tuffarsi in mare, afferrano il sacco e faticosamente lo trascinano a riva, poi lo issano in equilibrio su una vecchia bicicletta e percorrono così alcuni chilometri, fino al portone di casa. Sulle scale, sentendo quel tramestio, anche se è notte fonda, s’affacciano tutti: un quintale di farina! Una manna! “Ce ne sono ancora, di questi sacchi! Andate, presto!”
Il pesante sacco è svuotato e ripulito anche della farina bagnata dall’acqua di mare. Niente deve andare perduto! In casa è festa: si tira fuori il mattarello e per tutta la notte si fanno pasta, schiacciatine, focacce. Per qualche giorno si dimentica la brodaglia di zucca.
Ci si arrangia come si può anche per il vestiario: si riciclano abiti, specialmente da uomo, la cui stoffa viene “rigirata” e utilizzata; per i cappotti si usano invece le coperte militari, che per qualche ventura, finiscono nelle mani dei civili.
Spostarsi con i servizi pubblici in quel periodo è quasi impossibile, c’è un solo collegamento tra i paesi elbani e Portoferraio, che del resto, dopo il bombardamento di settembre e il presentimento di altri che sarebbero arrivati, si sta svuotando dei suoi abitanti, che sfollano nelle campagne e nella parte orientale, ritenuta più sicura almeno dalle incursioni aeree. Il servizio pubblico avviene con un vecchio autobus che non sempre, a seconda del carico, riesce a fare le salite più impervie. Così si provvede in altra maniera: a Rio Marina, c’è Lido, un ragazzo di 17 anni, che con il cavallo e il barroccio del padre Giuseppino, macellaio, fa la spola da un paese all’altro, trasportando latte, vino farina, materiale edile, lupini , carbone, uva, lisciva, pellicole cinematografiche e perfino…casse da morto! Ma una sera, con un tempo da lupi, mentre i fulmini squarciano il cielo e viene giù un’infinità d’acqua, c’è una merce speciale da trasportare: la levatrice che deve andare al Cavo, a otto chilometri di distanza, per assistere una partoriente, che presenta un parto difficile. Il barroccio consueto, adibito al trasporto di merci, è sostituito da un calesse, ma Giuseppino non permette al figlio di partire, si mette lui a cassetta ed è una vera avventura: ad ogni lampo che illumina a giorno la strada, ad ogni tuono che scuote il cielo, il povero cavallo si ferma e si imbizzarisce; ci vuole del bello e del buono per persuaderlo a riprendere il trotto. Finalmente arrivano: le acque sono rotte, il bambino non si presenta bene, la povera donna straziata dalle doglie del parto e dalla paura, ma Desolina è brava e riesce a far nascere un bel maschietto. La famiglia riconoscente, felice, ringrazia, ricompensa con quel poco che si può, rifocilla e fa asciugare al camino i panni dei viaggiatori, ma occorre riprendere la strada, ancora sotto il temporale: l’ostetrica, giovane e forte, se la caverà con un solenne raffreddore, Giuseppino, meno abituato ai disagi di simili spostamenti, si metterà a letto con un febbrone e una bella bronchite.
Così, tra l’occupazione tedesca, i bombardamenti alleati, le privazioni ma anche la vita che fa il suo corso e che, oltre a far morire, fa ancora gioire, innamorare, concepire e nascere, passano i mesi, finché in una calda e luminosa mattina del 17 giugno 1944, inizia nel Golfo di Campo, l’operazione Brassard, per la liberazione dell’Elba. Unità terrestri del primo corpo d’armata francese di stanza in Corsica, circa duecento unità navali di vario tipo e altrettanti aerei da combattimento ingaggiano la battaglia con gli occupanti tedeschi. Piccoli sbarchi in vari punti dell’isola sono già effettuati la notte precedente da marines francesi, inglesi e marocchini. Al termine della prima giornata, le forze attaccanti liberano la metà occidentale dell’isola ma i tedeschi resistono altri tre lunghissimi giorni prima di cedere.
Quello della liberazione, per le sue modalità di svolgimento, è uno dei capitoli più dolorosi della lunga e travagliata storia isolana: la battaglia coinvolge tutti i centri abitati, Marina di Campo è tenuta a lungo sotto il fuoco delle artiglierie navali, Portoferraio viene bombardata, Capoliveri subisce un cannoneggiamento, Rio Marina e Porto Azzurro piangono la morte di una trentina di persone per incursioni aeree. Le truppe coloniali, prima di essere brutalmente fermate dagli ufficiali, si abbandonano a violenze di ogni tipo, compresi gli stupri, odioso condimento di ogni guerra.
All’Elba occorrerà perciò molto tempo per riprendersi e in questo saranno d’aiuto le carezze del suo mare, finalmente sgombro di navi militari; lo sguardo del suo cielo turchino, libero di aerei minacciosi; l’abbraccio dei colli senza più soldati appostati in mezzo alla macchia; ma, soprattutto, la voglia di pace e di operosità della sua gente che lentamente guarirà le ferite della guerra anche se le cicatrici, si sa, si attenuano ma non spariscono mai.
Maria Gisella Catuogno
racconto presente in “Riviere” e liberamente ispirato a Portoferraio Memorie fotografiche 1940-1950 e a Racconti riesi “Riesità” di C. Carletti