Erano gli anni Settanta. Studente a Pisa, cercavo dei buoni maestri, perché i cattivi sembravano dominare l’università, i media, le istituzioni, la politica. Era già finita la stagione del Sessantotto liberatorio e creativo, soffocato da un mix velenoso di demagogia e d’intolleranza, che lievitata prepotentemente a fronte di una rotta, più che di una ritirata, della ragionevolezza.
Cercavo e non trovavo. Poi, un giorno, mi capitò tra le mani un numero di “Linus”. Ne era già direttore Oreste Del Buono. Di questo nostro conterraneo sapevo poco. Lo leggevo, di tanto in tanto, ora su un giornale ora su un altro. Dei suoi romanzi, conoscevo, superficialmente, solo La parte difficile. Del resto, l’Elba spingeva soprattutto verso Raffaello Brignetti che, non a caso, scelsi come primo autore su cui riferire ai miei esami di Letteratura italiana moderna e contemporanea. Posso dire che Brignetti mi affascinava e quasi non c’era posto che per lui, magicamente “apocalittico sereno”, nella mia biblioteca elbana di narrativa.
Le pagine di “Linus” mi presero subito: le strisce pilotavano al netto di troppe elucubrazioni nel grande corto circuito esistenziale di un’umanità intrisa senza scampo di tutto il post del post della società postindustriale. Le matite, da Altan a Shulz a Chiappori a Parker e Hart, erano accattivanti; i personaggi - Linus, Snoopy, Charlie Brown, Lucy, Wizard of Id – assolutamente intriganti. Ma c’era dell’altro e di più. C’era una palestra aperta al confronto, al dibattito delle idee. “Linus” diventò la mia rivista, destinata a non deludermi. Per entrare in quella palestra non chiedevano tessere, né tributi al politicamente corretto: lì sopravviveva il miglior Sessantotto. E Del Buono ne era l’infaticabile animatore e regista. Agli attacchi, che non mancavano, da destra e da sinistra, dall’esterno e dall’interno, egli rispondeva con le armi dell’intelligenza e dell’ironia. Duellò con Jacovitti, che era notoriamente un uomo di destra, con la stessa onestà intellettuale con cui duellò con i sinistrorsi Pericoli e Pirella o con Chiappori, che gli fece rivolgere da Up il sovversivo la celebre, preoccupata domanda: “Oreste, dove vai?”. A un lettore che gli ricordò di essere comunista, replicò che, se lui era iscritto al Pci, non lo era “Linus”. Io, lontano per tradizione familiare e per scelta personale dal Bottegone, rappresentavo la prova vivente che la rivista aveva messaggi per tutti. Bastava volerli ascoltare: importava se per condividerli o per rifiutarli o per pensarci su?
Volli conoscerlo, Del Buono. Non ci arrivai con facilità, perché si escludeva dal ‘cenacolo’ stagionale che raccoglieva Brignetti, Laurenzi, Villani, Barbiellini Amidei, nonché Giorgio Varanini e Stelio Celebrini, nel quale avevo una mezza briciola di ascolto. Nell’attesa, non persi tempo: lessi molte cose sue, penetrandone man mano lo spessore. Fu il mio viaggio più importante nella narrativa europea dei nostri giorni, dal neorealismo al nouveau roman allo sperimentalismo all’antisperimentalismo. E poi, insieme allo scrittore, emerse l’organizzatore di cultura, lo scopritore di talenti, il traduttore, il critico (letterario, cinematografico, televisivo), il braccio destro di grandi editori, il direttore di collane, l’opinionista.
Lo incontrai, finalmente, a Portoferraio. Mi sfugge l’occasione e non mi si chieda l’anno. Passeggiamo per un po’, conversando. Era un pomeriggio, sciroccoso, appiccicoso; il piovasco incombeva sulla dàrsena. Accompagnavano, monotoni, i nostri passi i cigolii del sartiame delle barche all’ormeggio. Era l’ inchiostro grigio nel quale intingeva la sua penna, quando non la tuffava in una soluzione sulfurea di cui solo lui conosceva la formula. Era a suo agio. Io, più che altro, ascoltai. E continuai ad ascoltarlo, da quel giorno non so quante altre volte ancora. Di norma, incollato al telefono. Diventò una consuetudine sentirci ogni due o tre settimane. Lui a Milano e io qui. Succedeva quasi esclusivamente di notte. Siccome era reduce dalla sua quotidiana ricognizione nelle strade della metropoli, me ne accennava, ma con una sorta di ritrosia, come se temesse di annoiarmi. Raccontava, sulle stesse esitazioni, anche di puntate fuori porta in buona compagnia: con Montanelli e Gianni Brera, ad esempio. Intorno a una tavola di sapori antichi, ad accalorarsi per il Milan e per l’Inter. Ogni quadro, ancorché sempre dipinto con due pennellate, qualunque ne fosse la cornice, mi arrivava compiuto. Semmai lo appiattiva una luce fioca o smorzata: che era quella dove più stagliava, attraversandola, un’improvvisa saetta di zolfo, fine come uno spillo, micidiale come un proiettile. Provavo ad immaginarne l’effetto sulla vittima e mi appariva un polendone Brera demolito, nonostante la sua nota reattività e, viceversa, un Montanelli, maledettissimo toscano, anche lui, al colmo della goduria, per aver visto l’aria trinciata da un’inarrivabile, intelligente cattiveria.
La notte incoraggiava le confidenze e me ne arrivavano di succose, dall’altra parte del filo, sebbene sempre civilmente contenute. Erano molti gli scrittori e i giornalisti di cui OdB aveva un’opinione positiva, ma assai di più erano quelli che riteneva fossero tenuti in piedi solo dalle stampelle dei partiti, delle corporazioni e delle consorterie. Uno ne bersagliava, in particolare, che un tempo resse le sorti del “Corriere della sera” divenuto strumento della Solidarietà nazionale. Nondimeno gli appunti che muoveva raramente erano delle sentenze: erano piuttosto segmenti di un’analisi compiuta dall’interno di un ambiente, tanto prolungata da potersi definire senz’altro storica. Perché il Nostro aveva cominciato a lavorare nel ’40, al “Bertoldo”, e non si era fermato più. Ne aveva conosciuto di gente, facendosi le ossa: anche con Luigi Berti, merita ricordarlo, di cui fu redattore nell’avventura di “Inventario”, l’importante rivista internazionale fondata dal letterato riese nel ’46. La sua memoria si manteneva straordinariamente viva, come la sua prontezza, sicché ogni domanda aveva una risposta, puntuale, agganciata a fatti, a circostanze; una risposta costantemente affidata a battute essenziali, per cui poteva dirsi che contavano di più i silenzi che ci metteva in mezzo. Quando capii che quelli li lasciava riempire a me, avvertii la gioia e la responsabilità della sua stima (non sempre ben collocata, devo dire, poiché laddove presumeva che sapessi avevo, invece, talora, dei crateri lunari, la cui ampiezza mi si apriva improvvisa e terrificante; e laddove presumeva che intuissi, vedevo solo buio). Sapevo, però, che nel momento in cui distingueva tra scrittori e scrittori, partiva da Gide. In ciò stavano la mia bussola e le mie effemeridi, che mi salvavano, a patto di tenere un occhio (molto aperto) anche su Musil, Svevo e Moravia, nonché su Sartre e Camus.
La cosa più complicata, con OdB, era parlare dei suoi romanzi. Per la semplicissima ragione che, salvo un assassinio mai commesso, sono autobiografici: lo sono drammaticamente, come lo è il vissuto di ogni uomo che non sia fatto di legno, ma di carne e anima, o che non sia un imbecille totale. Ne consegue che si tratta di un unico filo svolto per parecchie leghe. Né, d’altra parte, c’era da soffermarsi molto sullo stile e sulla lingua, assolutamente impeccabili, se non per sottolinearne la distanza da tutte le letterature che Brignetti definiva, marchiandole a fuoco, “oh Peppì”. Per pura ingratitudine era diventato, intanto, il mio chiodo fisso. Così glielo proponevo di continuo, ripassandone di volta in volta dei capitoli. Ma il problema era che stava già tutto lì. Altre ‘confessioni’ non servivano. Allora speravo che da Milano si alzasse la scala di Giacobbe per salire fino alla soglia di una sfiducia nella letteratura, proclamata in mille occasioni e puntualmente smentita. Ma si può trovare il cuore di una contraddizione? “E’ la cocciutaggine”, mi fu detto, una notte. Mi contentai, soddisfatto di veder polverizzate da tre parole semplicemente umane tutte le categorie filosofiche che avevo raccolto e tenuto in pronto. Serbai per me una sola remora, che era la convinzione che ci fosse uno scavo tuttora in corso, andando a spiare il quale si rischiava la legittima reazione del pudore.
Se lo portavo all’Elba, OdB evitava accuratamente la retorica della culla o dell’eden perduto. Del resto, la retorica era la sua bestia nera comunque e dovunque. Sono rimaste famose le sue stilettate contro la retorica della Resistenza (si ricorderà, a scanso di equivoci, come nel suo cursus ci fossero diciannove mesi di lager), che i professionisti della materia, mangiandoci e sporcandola in tutti i modi possibili, alimentavano senza sosta. Elba, nella sua produzione, voleva dire innanzitutto Acqua alla gola. Voleva dire il protagonista Berto alle prese con un viaggio di nozze sui generis, con i mal sopportati parenti, con un microcosmo riscoperto senza entusiasmo. Nel centro sfondo del romanzo, Marina di Campo, egli tornò, una volta: per rimanerci definitivamente, disse. Andai a dargli il benvenuto. Lo vidi da lontano, nella piazzetta dove una targa ricorda il sacrificio di suo zio, Teseo Tesei, l’eroe di Malta, in nome del quale era andato volontario in Marina, nel ’43. Camminava spaesato, si capiva che quello non era il suo posto. Dall’Elba (dal Poggio, dov’era nato l’8 marzo 1923) era partito ancora bambino, con il ricordo oppressivo della villa magniloquente del nonno Pilade, un notabile di spicco nell’Italia dei notabili, megalomane dissipatore di patrimoni. La sua vita si era svolta a Milano. E lì tornò, in quattr’e quattr’otto. Ci fu chi gliene volle, scioccamente. Furono quanti pensavano che la letteratura cominciasse e finisse con i Versacci di Ninna (così come la storia con i Come eravamo rionali). Anche una sua, tiepida, condivisione della vicenda del Premio letterario Elba durò poco. OdB si alimentava della città, che era la vetrina dei grandi fenomeni di massa, sui quali si appuntavano la sua attenzione e la sua inesauribile curiosità. Per me, andavano bene anche le conversazioni telefoniche: ci avevo preso la mano. E poi, in notturna, non c’era pericolo di distrazioni: gli argomenti si susseguivano senza soluzione di continuità. Mi ero convinto, peraltro, che il mio interlocutore amasse il telefono, dietro il quale trovava più facile schermirsi, in omaggio a un’indole schiva e recalcitrante di fronte ad ogni esibizione, anche la meno formale.
Proseguì per anni il nostro colloquio a distanza. Dal quale OdB non guadagnava nulla, mentre io entravo ogni volta in una miniera per uscirne indicibilmente arricchito. Non compensavano le informazioni che potevo dargli sul mondo della scuola. Trovava conferme alla sua giustificata convinzione che la lingua italiana stesse svilendosi in uno slang made in Broccolino nei temi dei miei studenti. Glieli leggevo laddove recitavano, ad esempio: “Ligurio incontrò mister Nicia”, facendo saltare messer Machiavelli nella tomba, o “Venezia aveva i Doges”. Anch’io attingevo a una bella carica di cocciutaggine.
Lo vidi per l’ultima volta ancora a Marina di Campo. Venne ad una cerimonia organizzata da quel comune, cui aveva regalato una parte consistente della sua biblioteca e un terreno da trasformare in un campo sportivo. Trascorremmo insieme un intero pomeriggio, passeggiando da soli su e giù davanti al lungomare. Avevo accanto un uomo anziano e stanco, sebbene ancora lucidissimo. Il suo dono parlava di un rapporto recuperato con l’isola e con il paese dove aveva la casa, ereditata da Teseo. D’altra parte, le premesse di ciò erano già tutte in Acqua alla gola: l’isola era almeno la riconciliazione con la natura. Allora tanto si coglieva e si apprezzava, ma non bastava. Ora, dopo un lungo percorso, lo si riteneva desiderabile.
Da anni, ormai, OdB non scriveva più romanzi. Gliene chiesi la ragione. Mi rispose, dopo un lungo silenzio, che non aveva più nulla da dire. Era la risposta che mi aspettavo: lo scavo era finito.
Nel 2000 si trasferì a Roma. Ci sentimmo sempre più di rado. Sofferente, parlava malvolentieri e con fatica. Poi, un giorno d’ottobre del 2003, mi chiamò l’editore Dalai, il nipote, per il quale tempo prima, per una breve stagione, aveva ripreso in mano “Linus”, lasciato nel 1981, e me ne porse l’estremo saluto.
Constato con rammarico, dal mio angolo oscurissimo, ma non chiuso alla gratitudine, il silenzio che, salvo lodevoli eccezioni, l’Italia riserva ad uno tra i suoi maggiori scrittori e intellettuali del secondo Novecento. “Quando – scrive sul “Corriere della sera” Ranieri Polese – “nel 1994, pubblicando i trentatré ritratti di Amici, amici degli amici, maestri”, OdB “diceva che il suo era un atto di riparazione per quelle persone della sua generazione che avevano avuto la ‘crudele ricompensa di essere dimenticate in fretta’, forse pensava anche a sé”.
Gianfranco Vanagolli, vicepresidente di Italia Nostra