Nasino lo faceva apposta.
Tutte le volte lo faceva apposta, il lunedì le scarpe da tennis non se le portava.
Nella borsa teneva soltanto quelle coi tacchetti e poi stava alla finestra.
Ma finiva sempre allo stesso modo, e in cuor suo lo sapeva anche lui.
Piccolo riavvolgimento di nastro: inizio anni novanta, Audace, squadra dell’under 18, campo di allenamento (e di gioco) San Giovanni.
Avevamo traslocato lì, il Carburo non esisteva più, erano in corso i lavori di ristrutturazione, quei fasti gloriosi erano andati.
Le risorse in quegli anni erano quelle che erano (sorvoliamo) e a San Giovanni e alla Bricchetteria ci si arrangiava come si poteva, tutti.
Ma noi dell’under 18 eravamo fortunati, avevamo un allenatore che non era soltanto tale, faceva tutto: il dirigente, il segretario, il custode, il magazziniere, il dottore, il massaggiatore, perfino il confidente e all’occorrenza (guai se i “suoi” ragazzi facevano la doccia ghiaccia) anche il caldaista.
Le regole erano chiare, talmente chiare che erano sottointese: puntualità, ordine e disciplina al di sopra di tutto, non c’era giustificazione che tenesse.
E il lunedì appunto, a discrezione dell’allenatore, si poteva andare a fare una bella corsa su per Colle Reciso, ergo le scarpe da tennis in borsa “dovevamo” averle tutti, per forza.
Oddio, non ci voleva certo uno scienziato per capirlo: se il sabato si perdeva, l’allenamento successivo, il lunedì, il pallone lo vedevamo nei denti, corsa (tanta e quasi tutta in salita) e poi doccia, tiepida quando andava bene.
Ma a Nasino, che pure di quella squadra era il capitano, quelle corse in salita proprio non andavano a genio, allora ci provava: “io le scarpe da tennis oggi non ce l’ho, me le so scordate. Dai giù, per stavolta…”
Sperava di sovvertire il volere sovrano e di andare in campo, una bella partitella e via. Un sogno.
Perché finiva sempre allo stesso modo, dicevamo: l’allenatore lo catechizzava a modo suo - e non volava una mosca, chiunque altro gli stesse vicino centellinava anche il respiro - poi però si sfilava le sue di scarpe da tennis, le Superga bianche (quelle della foto, proprio quelle), e gliele porgeva (avevano lo stesso numero di piede): “tieni, mettiti queste”.
“E te che fai non vieni? Ci aspetti qui?” gli domandava ambiguo Nasino, mentre già pregustava un bivacco dopo la prima rampa, al riparo da occhi indiscreti.
“Bau!” era la risposta standard “te non ti preoccupà e pensa a corre….”.
L’allenatore? Veniva anche lui, certo, eccome se veniva: calzava le scarpe che aveva in borghese sul momento, mocassini o “carro armato” che fossero, e si partiva tutti alla via di su.
Nelle fasi iniziali, in testa al gruppo, a scandire il passo (bello sostenuto), sempre lui, l’allenatore.
Le sue scarpe? Nessuno ci faceva più caso, lui per primo.
E nel prosieguo, per tenere compatti i ranghi, l’allenatore sfilava lui in coda al gruppo e spronava i più lavativi, l’eco tuonava fino a valle.
Chi non lo vedeva, lo sentiva.
Ed era inconfondibile, la voce di Beppe Frangioni.
Non poteva che cominciare così, con un aneddoto, il ricordo di Beppe.
Uno a caso, tra tanti, talmente tanti che neanche è possibile catalogarli tutti.
Ecco, se fosse possibile stilare una classifica di aneddoti, Beppe sarebbe fuori concorso, sul serio, ce ne sono veramente troppi.
Tutti chiari e nitidi e che ognuno, a seconda del livello di coinvolgimento, sente “propri ed esclusivi”.
Che personaggio che era Beppe.
Religiosissimo, era uno che non citava aforismi vari, li coniava proprio.
Dal mazzo, a occhi chiusi, abbiamo pescato questo, sempre d’attualità, che recita “Per gli scemi medicina non ce n’è”.
Ma sarebbe un errore, un grosso errore, ricordarlo solo per quello, o magari per qualche stravagante rituale scaramantico (chi più ne ha più ne metta), per quella vena un po’ pittoresca, insomma, che talvolta era parte integrante del personaggio.
Perché il mondo va davvero alla rovescia e può anche capitare, al campo sportivo (sic!), di sentire una giovane signora pronunciare “Beppe Frangioni? Hi hi hi, l’ho sentito nominare! Hi hi hi”.
Eh no, accompagni pure suo figlio all’allenamento Signora mia, ci mancherebbe altro, però non va bene, non ci siamo proprio, “unzipoolee”.
Allocuzione quest’ultima presa in prestito, indovini un po’ da chi.
Da qui in avanti si cambia registro Signora mia, poniamo rimedio alle sue lacune, o almeno proviamoci, cominciando subito a mettere in chiaro una cosa, a scanso di equivoci: uno così, nella vita, lo si incontra una volta soltanto.
Tiravamo ad indovinare, in quello spogliatoio, due cose su Beppe.
La prima: come si chiamasse quell’odioso profumo, deodorante o quello che era, con cui si cospargeva subito dopo la doccia. Svaniva quasi subito, ad onor del vero, ma in quel frangente non gli si stava accanto, era veramente insopportabile.
La seconda: quale fosse la sua fede calcistica, ma era difficile, indizi non te ne dava.
Che stupidi…….indizi non ne dava, più di così?
La sua fede era biancorossa, punto.
Lui e l’Audace, che connubio: non ce n’è!
Beppe dell’Audace è stato una leggenda sin dall’inizio, da quando cioè indossò, da subito, a pelle, quella maglia a strisce bianche e rosse.
Quante volte la indossò? Una vita.
Fatta eccezione per un anno a Porto Azzurro, sempre e solo quella.
Nel bellissimo libro che racconta il centenario di storia biancorossa, il numero esatto non compare direttamente, comunque sia tantissime.
Quante con la fascia da capitano? Idem e con ogni probabilità, più di tutti.
E che spessore aveva Beppe.
Quando andava in trasferta, non c’era un campo sportivo, uno soltanto, dove non fosse riconosciuto, salutato, rispettato.
E temuto, in quanto valoroso: una (eventuale) vittoria contro Beppe, contro l’Audace, sarebbe stata di prestigio, oltre che sudata, per l’avversario di turno.
In campo non andava per partecipare, mai, ci andava per vincere, sempre, da giocatore, da allenatore, contro chiunque.
E gli avversari questo lo sapevano, Beppe era un osso duro, da lui non c’erano da aspettarsi sconti.
Favoritismi? Accomodamenti? Nemmeno ci provavano, integerrimo com’era! E poi era un azzardo troppo grosso.
Ci sta infatti che fosse giunta voce oltre canale, della malaugurata sorte toccata a quell’asino di San Piero un po’ su di giri che osò fugarsi al suo (all’epoca) figlioletto: mandato al creatore seduta stante, a mani nude, con un colpo solo, ma assestato bene.
Un valoroso dicevamo, ma forse è riduttivo.
Mai nelle retrovie, sempre e comunque in prima linea, al suo posto, da condottiero, nella buona e nella cattiva sorte.
Nel libro sopracitato di Beppe compaiono ben tre citazioni, sostanzialmente alla stessa maniera.
Integralmente riportano questo.
“Difensore, giocatore forte fisicamente, una sicurezza per i compagni di reparto, tecnicamente buono, marcatore implacabile”.
“Un libero esperto, una sicurezza per la difesa. Ha disputato una gara egregia”.
“Libero dal gioco energico ed efficace, vero esempio di autentico spirito sportivo”.
Qualcosa vorrà pur dire, Signora mia.
Non era alto di statura Beppe, ma in campo sembrava davvero più grosso degli altri, il doppio.
Giganteggiava su tutto.
Di testa, di piede, nei contrasti, un muro invalicabile nell’uno contro uno, dotato di un senso innato della posizione che non lo tagliava mai fuori, non si contano le volte in cui è rimasto padrone della sua metà campo, non si contano le battaglie in area di rigore da cui è uscito vincitore a testa alta e, spesso e volentieri, palla al piede.
Beppe esordì giovane in prima squadra a metà degli anni cinquanta, nel 1954 per l’esattezza.
Ne seguì un quarto di secolo ininterrotto (fatta eccezione una manciatina di campionati in seconda) tra prima categoria e promozione.
Col livello che c’era all’epoca, tanta roba.
Di quelle squadre Beppe era l’anima, la bandiera, il trascinatore, il capitano.
Era un leone, veramente un leone e la sua criniera risplendeva in tutta la sua maestosità.
Era lui l’indiscusso re della foresta.
I fasti gloriosi del Carburo si diceva all’inizio, eccoli.
Un coinvolgimento popolare inverosimile, la mitica tribuna (installata nei primi anni settanta) spesso al culmine della capienza ed il cui tetto era spesso sul punto di volare in aria al battito dei pugni, la gente assiepata per tutto il perimetro del campo (e dietro le porte con i fiaschi del vino d’ordinanza), il riscaldamento dietro la porta in mezzo ai pini, gli spogliatoi angusti, il famigerato sottopassaggio dove succedeva quello che succedeva, storiche trasferte con centinaia di tifosi al seguito.
Altri tempi.
Un po’ di numeri ora, non guasta mai, quel libro ne è pieno zeppo, basta leggere.
E i numeri, si sa, non mentono.
Spiccano senza dubbio due promozioni consecutive, 1967/68 e 1968/69.
Mai prima, mai più dopo.
Ma la chicca forse, a ben guardare, è un’altra.
Stagione 1973/1974, prima divisione, di squadre forti e blasonate in quel girone ce n’erano e vanno elencate una ad una, in ordine alfabetico per non scontentare nessuno, poi un’idea uno se la fa da solo: Argentario, Casciana Terme, Castelfranco, Cerretese, Certaldo, Follonica, Forcoli, Fucecchio, Massetana, Picchi, Rosignano, San Miniato, Tuttocuoio, Uliveto, Venturina.
L’Audace era una squadra “normale”, arrivò decima, si salvò certo ma nulla di più.
Nulla di più? Partite giocate in casa quindici, sconfitte zero, reti subite zero.
Teste e lische per tutti, così, per non scontentare nessuno.
E quando gli sarebbe ricapitato in Federazione un caso analogo? Disciplinati tutti allo stesso modo?
All’Audace venne assegnato il (prestigioso) premio disciplina, che però è un’altra cosa.
Coincidenza a parte, c’è da riflettere: perché la rete biancorossa rimase inviolata un campionato intero?
Di testimoni, protagonisti in campo e non, ce ne sono a iosa, basta chiedere.
Rimpicciolivano la porta? Decisamente no.
Volavano bassi? Può darsi.
Gli altri tiravano poco? Forse.
O forse punto.
La legge del Carburo in quel campionato fu inflessibile, tutto qui.
Mai prima, mai più dopo.
Andrebbe ricordata quell’impresa, zero gol subiti in casa, magari immortalata in una targa commemorativa (perché no?), da affiggere da qualche parte.
Anzi no, un posto specifico ci sarebbe.
Dentro lo spogliatoio proprio: affiggetela lì quella targa.
Era quello infatti, insieme al campo, il territorio di Beppe, il suo regno.
Hai visto mai che qualche giovane leva gli dia un’occhiatina, prima di andare in campo….
E che carisma aveva Beppe.
Anche a bocce ferme suscitava una specie di karma, soffuso e condiviso da tutti coloro che gli gravitavano intorno.
Una presa di posizione di Beppe, all’interno dello spogliatoio, era vangelo o giù di lì.
Senza neanche aver bisogno di ruggire, laddove non serviva, come fa il leone capobranco appunto, né più né meno.
Ma non faceva pesare “l’io”, esaltava altresì il concetto di “noi”.
Dava l’esempio su tutto e tutto condivideva con il gruppo, che fosse un premio partita o un sorso d’acqua era indifferente.
Le primedonne e le individualità fini a se stesse non gli sono mai piaciute, figuriamoci dunque se si elevava lui a tale status, pur avendone tutti i requisiti.
Ed è proprio per questo che la targa commemorativa di cui in precedenza può essere letta come una provocazione ma solo in parte, anzi gli farebbe piacere al pari (se non addirittura di più) di un riconoscimento individuale.
Perché sarebbe un plauso collettivo, rivolto ad un gruppo, ad una squadra, di cui egli faceva parte ed in cui si incarnava, con tutto se stesso.
A quel tempo il capolinea di una carriera agonistica calcistica si aggirava intorno ai trenta anni, raggiunta quella soglia, volenti o nolenti, si passava la mano.
Mica Beppe però, lui smise tardi, a trentasette anni, decidendo autonomamente.
Primo, perché andare a dirgli in faccia “smetti, sei vecchio” (o qualcosa del genere infiocchettato per bene) era un pesante fardello per chiunque, per ovvii motivi.
Secondo, e qui si ribalta la prospettiva, perché non era vero.
Assolutamente.
A riprova del fatto, dopo qualche mese di inattività fu richiamato, gli venne chiesto di andare avanti, di giocare ancora.
E non per sentimentalismo, l’evidenza era ben altra.
Come giocatore magari poteva essere sostituibile, come uomo squadra no.
Un altro anno, uno solo, gli dissero.
E così via, allenava le giovanili Beppe, ma nel girone di ritorno puntualmente veniva richiamato.
Appese le scarpe al chiodo che ne aveva quaranta, non sapeva dire di no all’Audace.
Ha rifiutato invece, nel fiore degli anni, all’inizio degli anni sessanta, il passaggio al professionismo.
All’epoca non esistevano i procuratori e non si facevano tanti giri di parole, più o meno le cose andarono così: l’allenatore Ugo Conti (ex Juve, Genoa, Livorno, poi finito, tra le altre cose, a Cagliari come vice di Scopigno nell’anno dell’unico scudetto targato Sardegna, nel 1970) dopo averlo scandagliato un anno intero, gli disse “vieni con me nel Livorno, domenica giochi”.
Se lo sarebbe portato con sé dovunque, ma Beppe declinò.
Per la cronaca rifiutò anche, in un secondo momento, di passare al Lanerossi Vicenza, guarda caso stessa maglia e stessi colori dell’Audace.
Ad un osservatore venuto apposta a visionarlo, rimastone abbagliato dopo dieci minuti di partita, al momento del dunque rispose picche.
Furono scelte di vita, ma non è dato sapere se sofferte e fino a che punto.
Quando Beppe sceglieva, sceglieva.
Una volta fece, insieme ai fratelli Antonio, Franco e rispettive consorti, un lungo viaggio, un’odissea, per andare a trovare l’altro fratello Giancarlo in Australia, non si vedevano da anni.
Appena scesi dall’aereo, scambiati i convenevoli e sinceratosi delle buone condizioni di salute del fratello emigrato laggiù e della sua famiglia, Beppe scombussolò il programma della vacanza e fece il diavolo a quattro per montare sul primo volo disponibile per il rientro, ottenendo l’imbarco per il giorno successivo.
Il motivo? Il richiamo era troppo forte, la domenica c’era da giocare.
Questo singolare episodio identifica, meglio di ogni altra cosa, l’attaccamento di Beppe alla maglia biancorossa.
Non saltava una partita nemmeno se si trovava all’altro capo del mondo.
Ed a prescindere dai risultati, la lunga carriera calcistica di Beppe - ad occhio e croce oltre 600 gettoni di presenza - può essere racchiusa in una sola, cortissima frase.
Le partite non le giocava, le viveva.
Quelli della mia generazione non l’hanno mai visto giocare Beppe, sono soltanto stati allenati da lui.
Partecipava a scampoli di partitella, è vero, non era però la stessa cosa, aveva già oltrepassato la cinquantina.
E che allenatore era Beppe.
Innanzitutto era ancora un leone indomito e ben lontano dal ritrarre gli artigli, severo all’occorrenza – quasi mai per la verità, un sesto senso comune suggeriva di rigare dritto - ma protettivo a dismisura con i “suoi” ragazzi.
Aveva una memoria di ferro su nomi, circostanze e fatti, era documentato a tappeto (non si sa come) sull’avversario di turno, preparava la partita nel dettaglio senza mai riempirsi la bocca con filastrocche di numeri e moduli di gioco teorici, badava al sodo.
Aggiungiamoci poi che, con l’esperienza acquisita, lavorava anche d’astuzia.
E pensare che noi lo prendevamo quasi per matto.
E non tanto perché il giorno della partita, ancor prima di annunciare la formazione, indossava le vesti dello sciamano ed elencava minuziosamente orari, vizi e stravizi della sera prima di ognuno di noi, quanto perché, durante la partita proprio, in campo ci si guardava sbigottiti e in panchina ci si dava di gomito.
Capitava non di rado infatti, dopo appena una azione di gioco (sì una, avete letto bene), che lui sovvertisse tutto: spostava le marcature, sulle punte, a centrocampo, intimava agli attaccanti di stare larghi, molto defilati, invertiva le ali più volte nel corso di un quarto d’ora.
Insomma, rivoltava la squadra come un calzino a proprio piacimento così, senza apparente motivo.
Ma cosa ne sapevamo noi, giovani sbarbatelli?
Il motivo, uno solo, c’era.
Era avanti anni luce Beppe, “leggeva” la partita come nessuno, individuava in un batter d’occhio punti di forza e debolezze dell’avversario e li raffrontava ai nostri, in base alle mutevoli condizioni, senza tralasciare di esercitare sull’arbitro una pressione psicologica sopraffina, fin da subito, tenendo conto, eccome, del suo grado di intelligenza (o di demenza a seconda dei casi) e regolandosi di conseguenza.
Geniale, non ci piove.
Chissà come sarebbe stato valutato uno così al giorno d’oggi ai megacorsi di Coverciano……
E chissà perché stava solo con le giovanili Beppe, con le quali si è tolto le sue belle soddisfazioni in panchina, una su tutte un campionato da imbattuti (zero sconfitte, ancora…. allora ce l’aveva di vizio) con una under 18 regionale sul finire degli anni ottanta.
Col senno di poi è stata una manna dal cielo, perché se Beppe avesse avuto mai l’investitura della panchina più prestigiosa, quella della prima squadra, tanti ragazzi (decine, centinaia, e chi lo sa) non lo avrebbero mai conosciuto e apprezzato.
Stava con le giovanili Beppe, e lì paradossalmente regalava l’elisir dell’eterna giovinezza, esercitando innumerevoli volte il suo potere magico.
Nel senso che capitava, come no, che qualche prescelto miracolosamente “ringiovaniva” dello stretto necessario, oppure scattava l’indulto per lo squalificato di turno.
E se i maligni insinuano che, all’atto pratico, costoro venivano inseriti nella distinta consegnata all’arbitro sotto mentite spoglie……..pazienza!
Quisquilie e pinzillacchere.
Beppe ha rivoluzionato tantissime cose, tra cui il modo di snocciolare le formazioni biancorosse.
Eh sì, perché ancora oggi, quando si rievoca una delle formazioni dei tempi che furono (tornei dei bar compresi) non si comincia mica dal portiere, ma dal libero, il primo nome citato è sempre il suo.
Ma non solo, può anche capitare (e capita), in un dialogo popolare, che uno se ne esca con: “Ai tempi di Beppe…..”.
Bisogna dargliene atto, è la realtà, che lo si voglia o no: Beppe, all’anagrafe Giuseppe Frangioni, ha veramente segnato un’era.
Basta e avanza.
Solo i grandi lo fanno, è una loro prerogativa.
Faccia un po’ lei, Signora mia.
Tutti i giorni ti trasmetteva qualcosa Beppe (in cima alla lista valori ormai in via d’estinzione), ma l’insegnamento più grande ce lo ha impartito anni dopo, a tutti quanti, e il pallone stavolta non c’entra.
Perché è risaputo il modo, tenace ed encomiabile, con cui ha reagito al destino beffardo (manifestatosi sotto forma di un tremendo ictus) che gli andò incontro una fresca mattina settembrina di qualche annetto fa, fresco sessantenne.
Mai come quella volta incombeva il triplice fischio finale, ma la lezione servita sul piatto è di quelle indelebili: ha lottato in maniera belluina, com’era nella sua indole, uscendone vincitore, come sempre a testa alta e………palla al piede.
Ma è un tasto piuttosto delicato, meglio fermarsi qui.
Diciamo che da allora cambiò un po’ le sue abitudini, defilandosi giocoforza dalla prima linea, mettiamola così.
Potrebbe sembrare fino ad ora, impostato così al passato, il ricordo di una persona speciale che…..
Nient’affatto! Ma nemmeno per sogno! Il giovanotto in questione lunedì prossimo, il 7 Luglio, compirà 77 anni.
Però è speciale, questo sì, lo è sempre stato.
E quando lo incontri (generalmente intorno alla zona del Porto) non puoi salutarlo con la mano e tirare di lungo, come si fa un po’ con tutti, specialmente quando si va di fretta.
No, con Beppe non ce la fai.
Ti viene automatico fermarti e scambiarci almeno qualche battuta, è più forte di te.
Ma non è affatto semplice da spiegare.
Forse è una forma di rispetto, un rispetto vero, sincero, dovuto, che Beppe si è conquistato “sul campo”, quando era re, il re della foresta, il più forte e il più longevo della storia biancorossa.
O forse, più semplicemente, è una sorta di attrazione, di magnetismo, tipico delle divinità.
E le divinità non si ignorano né si deridono, si venerano.
Se poi il discorso ricade sull’Audace attuale, allora beh, scopri che è informato prima e meglio degli altri, tanto per cambiare.
Un connubio è un connubio.
Infine, al momento dei saluti, quando è in vena non disdegna di regalarti l’ennesimo sorriso, calandosi nuovamente nel personaggio.
E cioè ti congeda nel solito, inimitabile modo.
Un marchio di fabbrica, ovviamente, anche quello: agita la lingua ed emette uno strano stridulo, o ululato, non si è mai capito bene di preciso.
Ultimamente gli viene un po’ fioco, ma (stia tranquilla Signora mia) gli viene lo stesso.
Ci sarebbe da firmarsi ora, ma che importanza ha?
Sono uno dei “suoi” ragazzi.
Che gli volevano, e gli vogliono ancora, un bene enorme.
Perché a uno cosi, uno di quelli che nella vita si incontrano una volta soltanto, quando gli vuoi bene, glielo vuoi all’infinito.
Non è un luogo comune, è la sacrosanta verità, chiedete in giro, chiedete.
Siamo in tanti, decine, centinaia, e chi lo sa…..
Tanti auguri Beppe, buon compleanno.