UN FREMITO DI GIOIA PER IL PROF. ZECCHINI
Finalmente un fremito di gioia per il prof. Zecchini e per gli intellettuali del suo séguito.
Si sono convinti di aver scoperto un mio errore di grammatica e ci si avventano sopra come cani famelici, dedicandomi addirittura una vignetta in un blog.
Quasi mi dispiace di doverli disilludere.
FENICIE O FENICE ? To be, or not to be?
La mia polemica con Zecchini è iniziata il 26 luglio scorso. In quel mio lungo articolo, apparso su Elbareport, ironizzavo un po' sulla visita di Zecchini al museo archeologico della Linguella, così come lui stesso la racconta.
Quel Museo era stato inaugurato nel 1985: dopo ventitré anni Zecchini si era deciso finalmente a visitarlo. Ma appena entrato, era rimasto fulminato (sic) e inebetito (sic) davanti a una didascalia, dove aveva letto l'espressione "anfore fenice", in cui l'aggettivo femminile plurale era "orfano della i" (sic).
Quella scoperta l'aveva tanto traumatizzato da costringerlo a fuggire precipitosamente all'aperto. Da allora lo Zecchini, quando deve entrare in un museo, ha preso l'abitudine di portare sempre con sé i sali contro gli svenimenti da stress.
Parlare di fulminazione e di inebetimento per l'assenza di una "i" mi sembrava una sceneggiata caricaturale: in realtà quella fuga dimostrava che, dopo venti anni, non si era rassegnato all'idea che il Museo archeologico di Portoferraio fosse stato realizzato dalla dottoressa Ducci della Soprintendenza e dalla professoressa Pancrazzi dell'Università di Pisa, che − incredibilmente! − erano riuscite a fare a meno di lui.
LA REGOLA DI BRUNO MIGLIORINI
All'ironia sulla toccata e fuga io aggiungevo questa puntualizzazione: "A proposito della regola per la formazione del plurale dei nomi e aggettivi terminanti in –cia e –gia, occorre osservare che il criterio etimologico che Zecchini espone - risalire all’etimo e adeguarsi al latino - è vecchio e desueto: sembra che il professor Zecchini ignori che Bruno Migliorini nel 1949 e Aldo Gabrielli nel 1976 proposero di sostituire il criterio etimologico con la regola che è riportata in tutte le nuove grammatiche e a cui si adeguano i giornalisti e gran parte degli scrittori. In una sessantina di casi l’obsoleto criterio etimologico del prof. Zecchini e la nuova regola producono risultati diversi: si pensi a “provincie” nella Costituzione italiana".
MA ZECCHINI FRAINTENDE
A me sembra che il mio primo articolo del 26 luglio fosse chiaro: il criterio etimologico proposto da Zecchini per la formazione di quei plurali era stato sostituito nel 1949 − sessant'anni fa − dalla nuova regola del Migliorini, che è stata accettata dalle grammatiche e dagli scrittori.
Zecchini è rimasto indietro di sessant'anni. Mi compiaccio con lui.
In questa occasione − così come è successo altre volte − Zecchini ha mostrato di non riuscire a comprendere il senso delle mie affermazioni. Continua infatti ad accusarmi di essermi schierato a difese delle "anfore fenice".
E perciò − con quella finezza che lo distingue e che proviene dalla consapevolezza della propria ineffabile sciiienza − ha definito asini non solo gli autori della didascalia incriminata, ma anche me. Addirittura mi ha sfidato a singolar tenzone: ognuno dei duellanti dovrebbe presentare citazioni di "fenicie" o di "fenice".
Quando ho cercato di spiegare che io non avrei scritto "fenice" perché mi attengo alla regola di Migliorini, Zecchini − che evidentemente ignora chi fosse il prof. Bruno Migliorini e, ancor più, ignora che cosa Migliorini abbia detto − mi ha accusato di essermi macchiato di un improvviso voltafaccia. E canta vittoria perché il nemico finalmente indietreggia.
Non c'è modo di fargli capire che le cose non stanno così. Come un disco rotto − uno di quei vecchi dischi di vinile un po' logorati − Zecchini continua a ripetere la stessa solfa: io sarei un fautore del plurale senza "i".
LA VIGNETTA BOOMERANG
E i suoi amici − che, per mimesi o per metessi, sono irradiati anch'essi dalla sua Alta Cultura − hanno pubblicato una vignetta che raffigura un tizio in evidente stato di confusione mentale, che si domanda se è corretto scrivere fenicie o fenice. Ora se c'è qualcuno che prende fischi per fiaschi, quel qualcuno non sono io, ma è Zecchini.
Perciò voglio chiarire, in modo dettagliato, il senso di questa ridicola disputa grammaticale.
Si badi bene: per Zecchini la grammatica è soltanto un'arma di distrazione di massa, un pretesto, che gli serve per dribblare il merito della discussione: e questa è la sua tattica abituale, come mostrerò poi con alcuni esempi inequivocabili.
Intanto Zecchini non sa chi era il prof. Bruno Migliorini. Perciò occorre informarlo che Migliorini (morto nel 1975) è stato docente universitario a Roma, Pisa e Firenze: sui suoi libri e sulle riviste da lui fondate si trovano ampie notizie su Internet.
Dal 1949 al 1963 è stato presidente dell'Accademia della Crusca. Se Ciumei (un altro che stenta a capire quello che dico) pensa che l'Accademia della Crusca sia una premiata ditta di fornai che producono pane integrale, chieda lumi al prof. Zecchini.
Proprio nell'anno in cui fu eletto presidente dell'Accademia della Crusca, Migliorini scrisse un importante articolo sulla rivista "Lingua Nostra". In merito alla formazione del plurale dei nomi e degli aggettivi che terminano in cia e gia, egli constatò che il vecchio criterio etimologico (quello difeso da Zecchini e dalla coorte di linguisti che gli fanno corona) costringerebbe tutti gli italiani ad acquisire una conoscenza del latino di livello addirittura ottimo, per essere in grado di compiere un'operazione molto elementare: formare il plurale delle parole italiane senza sbagli.
Perciò Migliorini propose di abbandonare il criterio etimologico e adottare un metodo pratico che fosse assai più agevole e che prescindesse finalmente dall'obbligo di conoscere il latino.
Migliorini era uno studioso talmente autorevole che in breve tempo tutte le grammatiche accettarono la sua impostazione.
Soltanto Zecchini non se n'è mai accorto. Sarei curioso di sapere quale regola spiegasse ai bambini della scuola media di cui era insegnante di italiano ed elementari conoscenze di latino (come recitava la legge 31.12.1962 n. 1859, art. 2). Forse il Prof. Zecchini suggeriva a tutti i suoi bambini che, prima di scrivere un plurale, si laureassero in lettere classiche. Un altro metodo poteva essere quello dell'ambarabaciccicoccò, che offre cinquanta probabilità su cento di indovinare il plurale giusto.
Su questo argomento è tornata di recente Matilde Paoli, dell'Accademia della Crusca: proverò ora a riassumere e parafrasare le sue osservazioni, sperando che Zecchini − almeno questa volta − arrivi a capire. Mi rendo conto che per persone come me e come lui, che abbiamo abbondantemente passato i settant'anni, imparare qualcosa di nuovo è impresa ardua: ma, con un po' di studio e di applicazione, Zecchini forse ci può riuscire. Lo informo che su Internet può trovare anche degli esercizi facili facili.
UN CAPPELLO PIENO DI CILIEGE
Nel 2008 Rizzoli pubblicò un romanzo postumo di Oriana Fallaci, intitolato "Un cappello pieno di ciliege". Nel titolo la portavoce dell'Accademia della Crusca rileva che il nome del frutto è scritto senza la "i".
Anche Oriana Fallaci era un'asina? La celebre giornalista e scrittrice fiorentina non sapeva scrivere correttamente in italiano?
Spieghiamo allora a Zecchini quale sia la regola che Migliorini propose nel 1949 e che le grammatiche hanno accolto.
Quando la "i" è accentata, come in siderurgia o gaggia o nevralgia o farmacia, non ci sono dubbi: tutte le parole con la "i" tonica conservano la "i" anche al plurale, perché il suono di quella vocale "i" viene effettivamente pronunciato in modo distinto rispetto alle altre lettere della parola.
Le difficoltà sorgono quando invece l'accento della parola terminante in −cia e −gia non cade sopra la "i". Usiamo come esempio la parola del titolo di Oriana Fallaci: ciliegia. In italiano quella "i" davanti alla vocale "a" è ormai soltanto un segno grafico, che non viene pronunciato distintamente come suono "i".
Nessuno pronuncia ci−lie−gi−a, separando la "i" dalla "a".
I grammatici spiegano che qui la vocale "i" ha una funzione diacritica: è un segnale, per avvertire che le consonanti "c" e "g" hanno il suono come in cena e gelo, e non come in casa e gatto.
Quando la parola è al plurale (ciliegie), la funzione diacritica della "i" diventa superflua dal momento che la vocale che segue, cioè la "e", sarebbe sufficiente da sola a determinare la pronuncia corretta della consonante. Infatti negli esempi cena e gelo, non si sente il bisogno di scrivere ciena e gielo.
Nel singolare, se nella parola "ciliegia" si togliesse la "i", si otterrebbe "ciliega", la cui pronuncia è molto diversa da "ciliegia". Invece, al plurale, "ciliegie" e "ciliege" (la prima con la "i", la seconda senza la "i") si pronunciano esattamente allo stesso modo, sebbene le grafie siano diverse: in "ciliegie" la "i" non ha un suono e non ha nemmeno una funzione diacritica.
Chi è nato dopo la metà del secolo scorso, ha studiato a scuola la regola secondo cui, se la consonante "c" o "g" è preceduta da una vocale, il plurale è reso con la grafia −cie oppure −gie: acacia acacie, socia socie, grigia grigie.
Se invece la consonante "c" o "g" è preceduta da un'altra consonante, allora la grafia del plurale è −ce o −ge: goccia gocce, roccia rocce, bilancia bilance.
La regola di Migliorini è tutta qui.
Però ci accorgiamo che la lingua italiana ammette nell'uso molte eccezioni a questa regola: accanto ai plurali considerati corretti secondo Migliorini, sono comunemente considerate corrette anche forme come ciliege, valige, provincie…, sebbene non siano conformi alla regola di Migliorini.
LE LINGUE VIVE SI EVOLVONO
La regola di Migliorini oggi si trova in tutte le grammatiche scolastiche: ma nel 1949 fu una innovazione, che si impose per l'autorevolezza di Bruno Migliorini.
Nell'uso precedente, il mantenimento della "i" etimologica discendeva dal postulato che si dovessero rispettare i latinismi: ma comportava l'assurda conseguenza che l'ortografia italiana presupponeva la conoscenza del latino.
I casi di contrasto tra la nuova regola del Migliorini e la vecchia regola fondata sull'etimo (che è la regola conosciuta dallo Zecchini e − di conseguenza − dal gruppo di Intellettuali della sua Scuola) non sono molti. Per più di ottocento vocaboli le applicazioni dell'una o dell'altra regola producono risultati identici. Si hanno invece plurali diversi in circa sessanta vocaboli (l'otto per cento del totale).
Possiamo dire che la regola del Migliorini consente di ottenere effetti pratici molto simili rispetto al passato, ma con procedure enormemente più snelle, perché anche gli italiani che non conoscono il latino, sono ora capaci di scrivere correttamente il plurale di una parola della loro lingua.
Per quegli altri sessanta casi si verifica una oscillazione nella grafia del plurale. Si pensi, per esempio, che nell'articolo 114 della Costituzione italiana, modificato di recente, si legge "province", senza la "i", perché viene applicata la regola del Migliorini. Invece nel Titolo V della Parte II della Costituzione si legge "provincie" con la "i", perché quel testo fu scritto nel lontano 1947.
Io mi attengo − come ho scritto fin dal mese di luglio nel mio primo articolo − alla regola del Migliorini. Ma sono consapevole che esistono anche linguisti importanti come il prof. Luca Serianni, i quali auspicano addirittura l'eliminazione della "i" atona nei plurali, in un'ottica di razionalizzazione linguistica. Essi ribadiscono che la "i" è un mero "relitto grafico", che non serve a niente e che viene mantenuto soltanto perché la sua soppressione urterebbe «abitudini scrittorie ormai consolidate» e la sensibilità linguistica di certuni scriventi.
Insomma pensano che la famosa "i" (atona) nei plurali è un relitto che occorre rimuovere (come è accaduto nel 1982 per gli "spiriti" nel greco moderno): un relitto che serve soltanto ai professori pedanti per poter usare la famigerata matita rossa e blu.
Non lo dico io che − lo ripeto − per abitudine preferisco seguire la regola del prof. Migliorini.
Lo afferma il prof. Luca Serianni, ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università “La Sapienza” di Roma, dottore honoris causa dell’Università di Valladolid, Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, della Crusca e dell'Arcadia, vicepresidente della Società Dante Alighieri, direttore delle riviste “Studi linguistici italiani” e “Studi di lessicografia italiana”, curatore dal 2004 del noto vocabolario Devoto Oli, autore di una fortunata Grammatica italiana (più volte ristampata anche come Garzantina) e di una Storia della lingua italiana in tre volumi pubblicata da Einaudi.
Dai titoli che ho appena elencato, Serianni non appare uno sprovveduto.
IN CONDIZIONI CATATONICHE
Fin da luglio ho detto che io mi attengo alla regola del prof. Migliorini: e lo ripeto ancora una volta, perché repetita iuvant: temo che Zecchini non sia molto forte di memoria.
Sebbene io preferisca applicare la regola di Migliorini, mi sembra di capire che il prof. Serianni non giudichi un errore né le "ciliege" di Oriana Fallaci né le "anfore fenice" del Museo archeologico di Portoferraio. Quando si troverà un altro Migliorini capace di far prevalere il suo punto di vista, anche le grammatiche si adegueranno, come già è successo per un numero sterminato di altre situazioni: e Zecchini, che ha studiato filologia romanza, lo sa bene. Se i nostri antenati avessero ragionato come ragiona Zecchini (del quale i suoi dotti discepoli sono l'eco), oggi noi parleremmo ancora latino. Invece i nostri antenati hanno ignorato le matite rosse e blu degli Zecchini di turno: e il risultato è noto: il latino non è parlato più neppure dagli ecclesiastici. Per quanto possa dispiacere, questa è la realtà.
Tutto chiaro?
Non credo.
Ci sono persone convinte che esistano soltanto il bianco e il nero: invece, come dice il titolo di un film, esistono anche cinquanta sfumature di grigio, per non parlare dei colori…
Immagino che, dopo questa mia pedante lezioncina di grammatica, siano proprio gli intellettuali zecchiniani a trovarsi ora nelle condizioni catatoniche che sono raffigurate efficacemente nella loro vignetta del blog: è meglio fenicie? o è meglio fenice? boh.
E Zecchini cosa avrà capito? boh.
IL TUNNEL DEI NEUTRINI DI MARIA STELLA GELMINI
Quando si occupò dei neutrini, l'ex-ministro Gelmini si assicurò fama imperitura, rivelando a tutta l'ecumene che il suo Ministero aveva costruito un tunnel tra il CERN di Ginevra e il Gran Sasso. Fu la bufala del secolo.
Confido che anche gli intellettuali zecchiniani − adusi a cimentarsi con ardite speculazioni intorno alla biografia di re Marcinna e ai concetti più innovativi della Fisica contemporanea quali il "Multiverso" e la Materia oscura − sapranno trovare in souplesse una originale soluzione per gli ardui rompicapi dei nomi in cia e gia.
SI FA PRESTO A DIRE "ASINI"
Certe persone amerebbero rispondere in tutte le occasioni con un sì o con un no, usando la matita rossa e blu del prof. Zecchini e appioppando sbrigativamente l'epiteto di "asini", senza sapere di che stanno parlando. Ma purtroppo si presentano talora problemi che esigono almeno un granello di agilità mentale.
Posso sperare che Zecchini questa volta abbia finalmente capito?
Ne dubito. Perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
LA LIBERTÀ DI RIDERE
Le risposte di Zecchini presentano alcune caratteristiche:
- risponde a quello che non ho detto;
- sostituisce ai ragionamenti le contumelie. Ha usato parole come violento, sgangherato, sconclusionato, sbrindellato, logorroico, disistima, ampollosità, pessime informazioni, malignità gratuite, falsità, astruserie, affermazioni peregrine, inutili divagazioni, “alta cultura bertiana”… Mi fermo qui, perché l’elenco completo sarebbe lunghissimo. È palese il suo obiettivo: vuole suscitare una rissa, uno scambio confuso di grida e parolacce, per nascondere la vera natura della discussione e la sua incapacità di trovare argomenti;
- allude, in maniera più o meno vaga, a futuri processi penali in cui saranno i giudici a stabilire il tasso di sciiientificità e di aria fritta del suo libro. Zecchini sembra non accorgersi che in realtà io non rischio nulla. Per la colpa di aver riso di Cath-Catha-Cathu-Cothu-Cuthu o di re Marcinna/Marcena/Marcna/Marxna o del francese Catone o delle esche avvelenate per i topi neri di Montecristo, nessun giudice − dopo le massicce dosi di insulti che Zecchini e Ciumei mi hanno rivolto − potrà mai condannarmi. Io mi sono limitato a ridere: e nella repubblica italiana esiste anche la libertà di ridere. Chi mette in giro un libro di 302 pagine, non può pretendere il plauso universale.
ERRATA CORRIGE
Nell’ultima replica Zecchini scrive che la Camera di Commercio di Livorno non ha finanziato la stampa del suo libro. È una buona notizia: l’idea che i soldi delle nostre tasse venissero usati per stampare quel libro mi indignava.
Però Zecchini ammette che lui o qualcun altro (Ciumei?) è andato a battere cassa presso l'ente pubblico livornese, cercando di pagare il libro con i soldi nostri: Zecchini ammette che l'intenzione c'era. E per me, che fin dall'infanzia sono cattolico, l'elemento decisivo è l'intenzione.
Se poi il nuovo presidente della Camera di Commercio ha avuto il buon senso di dare un’occhiata a quello che stava per finanziare e ha preso una decisione diversa, me ne rallegro. Sarei curioso di avere notizie certe sui motivi che hanno portato ad annullare il promesso finanziamento. Qualcosa è trapelato, ma, in mancanza di informazioni sicure, devo ricorrere all'immaginazione. Non posso dire di più: ma quello che intuisco mi diverte.
Sul finanziamento del libro Zecchini mi rimprovera di non aver effettuato la verifica delle fonti. Devo riconoscere che è proprio vero: non ho verificato le fonti.
Ho avuto il torto − imperdonabile − di fidarmi di Zecchini, che a pagina 6 del suo libro aveva scritto che la stampa era stata finanziata col contributo della Camera di Commercio. Ripeto: a pagina 6 del libro dello Zecchini.
E ho avuto il grave torto di fidarmi del sindaco Ciumei, che nel primo risvolto di copertina del libro rivolge un "ringraziamento particolare" al precedente presidente della Camera di Commercio di Livorno per il finanziamento accordato.
Avevo avuto dubbi su re Marcinna, su Giasone, su Catone, sul monte Campana…, ma davo per certo che almeno il duplice ringraziamento di Zecchini e di Ciumei alla Camera di Commercio avesse un qualche fondamento di verità. Invece apprendo ora dall’Autore che quei ringraziamenti all’Ente livornese erano fasulli: si trattava di due dichiarazioni false.
Due dichiarazioni false per motivi tecnici: accetto senza obiezioni tutte le spiegazioni che vuole lui. Ma comunque si trattava di due dichiarazioni false di Zecchini e Ciumei, contenute all'interno del libro di Zecchini. Dichiarazioni false che ora Zecchini finalmente riconosce come false e smentisce. Prendo atto.
Però Zecchini dovrebbe chiedere scusa ai lettori che sono stati ingannati. Ingannati da lui e non da me.
Chissà se nel libro Zecchini ha disseminato altre falsità? Potrebbe essere così gentile da redigerne un elenco e metterlo online? È un suggerimento che mi permetto di dare perché non vorrei incorrere di nuovo in severe smentite come questa, che riducono in brandelli la credibilità: mi riferisco − com'è ovvio − alla credibilità dell'Archeologo e del Sindaco.
Zecchini ha mai sentito l’espressione “errata corrige”? Ne trascrivo il significato dal Vocabolario Treccani: “Nel linguaggio bibliografico, elenco degli errori riscontrati, a stampa ultimata, in un libro, e che viene stampato, con le relative correzioni… in foglietto a parte”.
Tutti gli autori seri stampano - se è necessario - un errata corrige. Perché Zecchini non ha redatto un errata corrige? Forse non gli dispiaceva che un ente pubblico apparisse (seppur falsamente) come il finanziatore del libro e, in un certo modo, ne avallasse il valore col suo patrocinio.
Se deciderà di redigere ora un'errata corrige, non dimentichi di includere anche quegli errori ridicoli che ho segnalato nel mio primo scritto, come "Giasone e &" (pagina 40 in alto) e "Rubattino e &" (ripetuto diverse volte nel capitolo sul relitto del Pollux, a pag. 136 e segg.) e quei periodi sbagliati…
E si ricordi che feuilleton si scrive con una sola "t", e non con due, come fa lui.
Un dettaglio curioso. Zecchini scrive che, quando la Camera di Commercio ha deciso di negare il contributo, il libro era già stato stampato col testo del ringraziamento e perciò non era più possibile ritornare indietro. Questo può essere vero per il testo stampato su carta. Però quella stessa pagina col ringraziamento alla Camera di Commercio è riportata anche su un sito Internet, con alcune modifiche: intanto il numero della pagina è diventato 4, mentre nel libro è 6; e poi sono state eliminate altre indicazioni. Dunque almeno nel sito Internet è stato possibile apportare modifiche. Però non è stato tolto il ringraziamento all'ente livornese. Perché?
Possiamo dire che è stato millantato un patrocinio che non esisteva?
COME IN UN FILM DI STANLIO E OLLIO
Nella mia ricerca io ho trovato addirittura tre conferme della stessa notizia ad opera di Zecchini e dei suoi amici. E ora Zecchini mi rimprovera di avergli prestato fede e di non essere andato a controllare a Livorno, negli uffici della Camera di Commercio.
Questo aspro rimprovero di Zecchini è coerente e logico come un film di Stanlio e Ollio: Zecchini mi dice che a fidarmi di lui io sono stato proprio "stupìdo" (con l'accento sulla i).
Prometto che di lui e di Ciumei non mi fiderò più.
Sul costo del libro ho raccolto voci che giravano in paese. Per verificarle, a chi avrei dovuto telefonare? A lui? A Ciumei? Nonostante i nostri rapporti così confidenziali, non mi è venuto in mente.
Su eventuali lauti guadagni degli autori io non ho detto né pensato una sola parola: dunque la smentita non mi riguarda.
NON CAPISCE IL VERO MOTIVO
Zecchini non riesce a capire perché mi sono risentito. Si rifiuta di ammettere che le critiche espresse nel suo libro sul fornice di Porta a Terra sono offensive.
È convinto di avere il diritto − nella sua veste di Scienziato − di distribuire schiaffi impunemente. E se io non voglio i suoi schiaffi, allora pensa − e scrive! − che io sono cattivo, violento, livoroso.
Dunque Zecchini (e Ciumei) scrivono che io sono cattivo. Invito allora a vedere qual è il trattamento che Zecchini riserva a quelli che non gli stanno simpatici.
S IMPURA, Z, X, PS, GN E VOCALE
In consiglio comunale l'opposizione ha presentato le proprie obiezioni sul piano del porto: le argomentazioni erano talmente giuste, che se ne trovano molte tracce nel recente documento con cui la Regione ha bloccato il piano.
Ma Zecchini interviene pubblicamente in difesa di Ciumei.
Sul progetto dell'Amministrazione non dice una parola. Non critica nemmeno i consiglieri dell'opposizione per le argomentazioni che hanno esposto contro il progetto. Del progetto non gli importa nulla.
Zecchini interviene − udite udite − per accusare l'opposizione di un errore di grammatica.
Un errore di grammatica? Proprio così.
Incredibile.
La sola cosa che sa dire è che c'è un errore di grammatica.
La minoranza consiliare non ha tenuto conto che davanti ai nomi che iniziano per vocale oppure s impura, z, x, ps, gn, si deve usare l'aggettivo dimostrativo nella forma ecc. ecc…
Ora ai cittadini di Marciana Marina non interessa molto di sapere le regole della grammatica sulla s impura, z, x, ps, gn e vocale. Non sanno nemmeno che cosa sia la "s impura".
I cittadini si preoccupano invece che le modifiche del porto non rovinino le bellezze del paese, che sono la garanzia del loro lavoro futuro e del loro benessere.
Ma per il Grande Luminare l'assoluta priorità spetta agli aggettivi dimostrativi e alla s impura, z, x, ps, gn. Questo Grande Luminare si occupa della s impura e non spende nemmeno una parola sui problemi concreti.
I nostri nonni avrebbero detto: roba da raccontare a veglia.
Zecchini, con tono apparentemente bonario, spiega che non gli piace fare il maestro con la penna rossa e blu (pagina 248): ma quando si trova a leggere sgrammaticature in testi scritti da chi riveste cariche pubbliche, non riesce a trattenersi. E prosegue per 32 righe, proclamando che è disdicevole che ci siano tanti somari in consiglio comunale. Pretende comunque che i somari lo ringrazino "ex imo pectore", perché lui ha cercato di aiutarli a non apparire più, in futuro, così "superficiali, approssimativi e sgradevoli" come risultavano nelle loro osservazioni.
Traduzione della prosa zecchiniana: io sono l'incarnazione della Cultura, io sono lo Spirito del tempo, lo Zeitgeist. Voi non siete nulla. Perciò vi insulto e vi prendo anche in giro.
Non voglio infierire su un Grande Luminare che scrive "Giasone e &". Voglio solo sottoporre al Professorone questa frase del sindaco Ciumei apparsa su Facebook:
"Perdo giornate a rispondere a domande superflue che, per ottenere risposta, sarebbe sufficiente saper leggere e correttamente interpretare le Leggi… Dì a Paolo di scrivere al Difensore civico"..
Zecchini proclama che, quando si trova a leggere sgrammaticature in testi scritti da chi riveste cariche pubbliche, non riesce a trattenersi. Ma io scommetto che davanti a questa splendida prosa del sindaco riuscirà invece a trattenersi perfettamente.
IL LATINORUM
In un'altra occasione un oppositore ha criticato pubblicamente il sindaco Ciumei.
Ecco allora che di nuovo interviene il Grande Luminare non per spiegare che il sindaco ha ragione, ma per osservare che l'oppositore riporta in modo inesatto una citazione latina. Anche in questo caso la priorità non va − secondo Il Professorone − ai problemi concreti che sono stati sollevati, ma alla mancanza di un dittongo "ae" e di una vocale "u", senza i quali appare intraducibile il testo latino. Sui problemi concreti nemmeno una parola. Molte parole invece per maltrattare e schernire spietatamente l'oppositore di Ciumei (pag. 259): Zecchini allude a un tizio che confondeva il genitivo con i genitali e conclude con l'appellativo di somaro.
Potrei citare numerosi altri esempi. A Zecchini piace molto liquidare con una frase cattiva il lavoro degli altri: non si fa scrupolo di snobbare o addirittura massacrare chi non appartiene alla cerchia dei suoi reggicoda.
Ho notato non poche cattiverie di questa natura, che non esporrò per rispetto delle sue vittime.
"L'ISOLA DEGLI IGNORANTI"
Voglio riferire però un caso di particolare spietatezza. In una piccola collana di libri divulgativi, stampati con lo scopo di fornire qualche informazione ai turisti in visita all'Elba, uno degli autori ha attribuito alla seconda guerra punica la datazione della terza, con un errore di circa mezzo secolo.
In verità il libro si legge volentieri: la prosa è molto più scorrevole di quella del libro di Zecchini; i fatti sono esposti senza pedanterie noiose, come è opportuno che sia per attrarre l'attenzione di un turista.
Ma Zecchini sa che l'autore partecipa al gruppo Aithale: è un nemico. E allora gli dedica due feroci articoletti, chiedendo che il libro sia "ripensato e ristampato" perché "nella versione attuale sarebbe promozione offensiva… per l'immagine dell'Elba, che troneggerebbe come l'isola degli Ignoranti…, sia per gli elbani ai quali verrebbero indirizzati strali sarcastici e cachinni da ogni punto cardinale".
Una stroncatura immeritata, espressa con parole estremamente pesanti, addirittura rabbiose. Ciumei direbbe: "genuina cattiveria".
Ma devo riconoscere che Zecchini è libero di formulare i suoi giudizi come meglio crede.
SAN CERBONE E I GOTI
Però io vorrei attirare l'attenzione del lettore sulla pagina 271 del Grande Libro di Zecchini.
In un riquadro posto in alto, l'Architetto Professor Dottor Giuseppe Alberto Centauro pubblica alcuni brani tratti da un libro di Sandro Foresi, nei quali si parla di Napoleone e di Maria Walewska, che sarebbero andati a passeggio dalla Madonna del Monte fino alla chiesetta di San Cerbone. A proposito del vescovo Cerbone, si legge che, "perseguitato dai Goti, fuggì dal Vescovado di Piombino" e si rifugiò all'Elba.
Dunque San Cerbone sarebbe fuggito dal Vescovado di Piombino. In realtà il Vescovado di Piombino non esisteva. Invece esisteva la diocesi di Populonia. Poi i vescovi si trasferirono a Massa e la diocesi assunse il nome di Massa e Populonia. Soltanto nel 1978 fu costituita la diocesi di "Massa Marittima e Piombino", mentre era vescovo mons. Lorenzo Vivaldo. Insomma un errore di oltre quattordici secoli.
Non voglio soffermarmi sull'errore nella denominazione della diocesi, che è peccato veniale. Però in un libro che si presenta come la Bibbia dell'Archeologia e della Storia, uno sbaglio di quattordici secoli fa una certa impressione. Tanto più che l'excursus sull'amante di Napoleone e sulla morte di San Cerbone non ha nessun legame logico con il resto dell'articolo, che è dedicato all'invenzione di re Marcinna. La contessa Walewska e San Cerbone avrebbero solo lo scopo di dare allo scritto un pizzico di vivacità e una patina di cultura storica.
Gravissimo è invece l'errore dello scambio fra Goti e Longobardi: il vescovo Cerbone fuggì da Populonia all'Elba, perché perseguitato non dai Goti, ma dai Longobardi. Nella guerra greco−gotica (dal 535 al 553) il regno dei Goti era stato sconfitto e abbattuto da Belisario e Narsete. Quando Cerbone morì all'Elba, nel 573, il regno degli Ostrogoti era già scomparso da venti anni. Nel 568 era cominciata l'invasione dei Longobardi.
Qualcuno penserà forse che tanto i Goti quanto i Longobardi erano barbari di origine germanica e che perciò l'errore non sarebbe poi grave.
Ma la guerra greco−gotica è un momento molto importante per la storia italiana: Palermo Napoli, Roma, Brescia, Verona furono assediate e conquistate; Milano fu distrutta. Gli eserciti goti e bizantini si scontrarono in tutte le regioni italiane. La storia della guerra gotica è raccontata da Procopio di Cesarea, che espone in termini drammatici gli orrori della guerra, la fame, la decimazione della popolazione.
Ma quella guerra non ci interessa per le vicende della histoire événementielle: battaglie, eserciti, generali, sovrani… Quella guerra provocò lo spopolamento delle città, l'abbandono delle coltivazioni, carestie, pestilenze: le conseguenze furono catastrofiche e si protrassero per molti secoli. Scomparve l'organizzazione della società come si era costituita durante l'impero di Roma: il potere politico e militare si trasferì nelle campagne; nelle città rimase soltanto l'autorità del vescovo. La città di Roma, che nel primo e nel secondo secolo superava forse il milione di abitanti, finì per ridursi a un paese poco più grande di Portoferraio. Pochi anni dopo la guerra gotica, l'invasione longobarda determinò la divisione politica dell'Italia, che durerà fino al Risorgimento. Fu quello l'inizio del feudalesimo.
UN GRANDE CONVEGNO "CULTURALE" CON TANTO DI ASSESSORE
Fare confusione intorno a questo periodo storico non è cosa da poco: sembra di capire che la "Longue durée" di Fernand Braudel e Les Annales siano arabo per l'autore dell'articolo. E non solo per lui.
E proprio l'autore di questo articolo presiederà un convegno di storici, a cui sarà presente l'Assessore regionale alla Cultura?
Se lo scambio di date fra la seconda e la terza guerra punica ha indotto Zecchini a parlare di offesa sia per l'immagine dell'Elba, che troneggerebbe come l'isola degli Ignoranti, sia per gli elbani ai quali verrebbero indirizzati strali sarcastici e cachinni da ogni punto cardinale", che dirà il Grande Luminare di questo madornale scambio fra Goti e Longobardi?
Immagino che darà la colpa al libro di Sandro Foresi, da cui l'Architetto Professor Dottor Giuseppe Alberto Centauro si è limitato a estrarre alcuni passi.
Troppo comodo.
Quando io ho semplicemente trascritto quello che lo stesso Zecchini e Ciumei e il loro sito Internet avevano reso noto sul finanziamento della Camera di Commercio, Zecchini mi ha severamente rimproverato di non aver controllato le fonti. Eppure io non scrivevo un libro di storia, ma un modestissimo articoletto di autodifesa nel corso di una piccola polemica su un'opera pubblica del comune di Portoferraio. E io non sono né un Archeologo con la A maiuscola (sic), né un ricercatore, né uno storico, né il Presidente di una Società culturale: io sono solo un dipendente statale andato in pensione.
Invece l'Architetto Professor Dottor ecc. ecc. ha scritto − in un Libro di Storia − una pagina di Storia che è alla base di un convegno di Storia.
Però questo Autore di Storia non ha verificato le fonti.
E non sarebbe giusto addossare ogni responsabilità all'Architetto Professor Dottor Centauro, quello che confonde etimo con eponimo e tsunami con alluvione.
Anche Zecchini è responsabile, perché, dopo aver letto quell'articolo, lo ha incluso nel suo libro, senza verificare le fonti.
Per parlare del finanziamento della Camera di Commercio, io avevo il dovere di verificare le fonti. Ma per questi illustri Storici l'obbligo di verificare le fonti non vale. Eppure mi sembra che la guerra greco-gotica sia più importante del finanziamento di un libro da parte della Camera di Commercio di Livorno.
Peras imposuit Iuppiter nobis duas: propriis repletam vitiis post tergum dedit… E così Zecchini non riesce a vedere i propri vizi.
L'ISOLA DEGLI IGNORANTI
Domando al Professorone se accetterebbe che qualcuno dicesse quello che lui ha detto dell'altro libro e cioè che è offensivo sia per l'immagine d'Elba, che troneggerebbe come l'isola degli Ignoranti, sia per i suoi abitanti "ai quali verrebbero indirizzati strali sarcastici e cachinni da ogni punto cardinale".
Domando al Grande Luminare come reagirebbe se − per analogia − qualcuno osasse ripetere le sue parole, cioè che il suo libro deve essere "ripensato e ristampato".
Credo che minaccerebbe querele. Ma non capisco perché a lui è lecito massacrare gli altri, mentre gli altri non possono esprimere le loro opinioni sulle sciocchezze − molto più numerose e più gravi − contenute nel suo libro.
E faccio notare che il volumetto di storia dell'Elba ad uso dei turisti non ha la pretesa di presentarsi come Monumenta Ilvae historica, solennemente celebrati sulle piazze elbane.
È noto che io sono violento e genuinamente cattivo: però quello che Zecchini ha scritto contro un archeologo colpevole di aderire all'odiato gruppo Aithale mi sembra umanamente inaccettabile.
Gian Piero Berti