Non è per niente semplice ricordare una persona di caratura nazionale, ex calciatore professionista, come è stata Arrigo Dolso.
E poi c’è chi, di mestiere, a suo tempo lo ha già fatto.
Digitate Arrigo Dolso su google, vi si aprirà un mondo.
Ha giocato, dal 1966, nella Lazio per 6 stagioni (intervallate da un anno al Monza), nel novembre del 1971 si trasferì al Varese. Seguirono stagioni ad Alessandria, Benevento, Trapani, Grosseto e Ravenna.
Il destino lo ha portato all’Elba nel 1984 e da allora non se n’è più andato.
Prima allenatore-giocatore dell’Audace poi soltanto allenatore, di prima squadra ed in seguito di squadre giovanili.
In quegli anni, metà anni ottanta, in prima squadra c’era una generazione di fenomeni, sul serio.
Col senno di poi, una delle più forti del dopoguerra.
Volete una riprova? Metteteli in campo ora, cinquantenni, così come sono (chi sempre in forma, chi un po’ meno) e vedrete che per mezz’ora non ce ne sarà per nessuno.
Era uno squadrone, e metterci dentro uno dei talenti più puri che il calcio italiano abbia mai prodotto, anche se a fine carriera, Arrigo Dolso appunto, fu come mettere l’innesco ad una bomba.
Quei ragazzi, a detta loro, con lui fecero il vero salto di qualità.
Come calciatori si intende, e non è certo un caso che molti di loro oggi siano degli eccellenti allenatori.
Era veramente un calciatore non classificabile Arrigo Dolso, fuori dagli schemi, fuori dal comune, col pallone faceva ciò che voleva.
Non dava del tu al pallone, gli sussurrava, come si fa quando si raccontano le favole ai bambini.
Non calciava il pallone, lo accarezzava, come si fa ai capelli dei bambini quando si addormentano.
Le cose che faceva in campo erano indescrivibili, ci andrebbe scritta un’enciclopedia di tecnica.
Un fenomeno.
Però non era facile giocarci insieme: vedeva le cose in modo tutto suo, non potevi neanche immaginare cosa sarebbe partorito da quel fatato piede sinistro.
Già, era mancino, come Maradona, come Messi, come Sivori, come Rivelino.
Con un mancino tecnicamente puoi lavorarci quanto vuoi, ma stai pur certo di una cosa: a differenza dell’altra parte, non potrà mai diventare ambidestro, mai.
Ad un mancino il destro serve per tenersi in equilibrio e poco più, la sua abilità è dettata soltanto da un fattore: da quanto è stata generosa madre natura. Stop.
Un mancino va preso così com’è, talento allo stato puro, imprevedibile a prescindere, prendere o lasciare.
Prendere signori, prendere.
Per far capire il giocatore che era Arrigo, per i più giovani che non l’hanno mai visto all’opera, un calciatore che per certi versi gli somiglia è Zidane.
Così, nell’ordine: Zidane somiglia a Dolso, non viceversa.
Chi ha visto giocare Arrigo, o meglio ancora chi ci ha giocato insieme, sa cosa intendo, sa bene che quest’affermazione è tutt’altro che blasfema.
Due piccoli esempi per rendere l’idea di che razza di giocatore fosse.
Il primo episodio risale a fine anni novanta.
Si recò a Roma, allo stadio Olimpico, stracolmo per l’occasione, a vedere il posticipo domenicale Lazio-Inter.
Alla fine del primo tempo fu avvicinato da Bonolis, che impazzava in tribuna d’onore con microfono in mano e cameraman al seguito.
Le immagini erano proiettate sui maxischermi dietro le curve.
Ad Arrigo lo riconobbero subito, lo riconobbero tutti, a distanza di trent’anni.
L’applauso che si levò spontaneo in un baleno si fece sempre più scrosciante e ben presto, complice la cornice impagabile, si trasformò in un’ovazione.
Il secondo episodio, risale ad inizio anni 70, a fine carriera (professionistica).
A Varese, alcuni tifosi gli dedicarono uno slogan e lo vergano su uno striscione.
Quello striscione, da subito leggendario, fece il giro del mondo.
Sul testo, beh, c’è poco da commentare, si commenta da solo: “RIVERA + CORSO = DOLSO”.
Ed io non credo davvero di essere l’unico matto a cui, semmai un giorno un figlio o un nipotino chiederà “Qual è stato il giocatore più forte che hai mai visto in vita tua, dal vivo?” risponderà secco, senza esitazioni: “Arrigo Dolso”.
Che classe aveva, il punto era uno soltanto: quelle giocate assurde, quei tocchi di prima vellutati guardando dalla parte opposta (oggi definiti “no look”), per lui erano la regola, non l’eccezione.
Tutto qui, quel modo divino di interpretare il calcio faceva parte della sua semplicità.
Un genio.
E sregolatezza? Certo che sì.
D’altra parte, da che mondo è mondo, quando mai le due cose non vanno a braccetto?
Vabbè, qui però sorvoliamo dai…..per riordinare e rendere fruibile il vasto materiale che c’è, andrebbe scomodato il più celebre dei romanzieri.
Comunque, se volete, qualcosina lo trovate qui
http://www.riverflash.it/wordpress/?p=14787
http://archiviostorico.gazzetta.it/2003/gennaio/06/Dolso_tunnel_Krol_sgarbi_Riva_ga_0_0301062109.shtml?refresh_ce-cp
Sul finire degli ottanta non c’era la pay tv ed il calcio dilettantistico alla domenica pomeriggio era seguitissimo.
Per gli appassionati non c’era altro.
Le trasferte dell’Audace erano sistematicamente ostili, non erano mai rose e fiori ed era impensabile che la partita terminasse in un clima di tarallucci e vino, di baci e abbracci.
Lui non si faceva problemi, si calava nella parte, giocava per divertirsi e per divertire.
Ma quando era ispirato, più che divertire, incantava proprio la platea.
Che non era più quella dell’Olimpico o di San Siro, ma piuttosto quella rozza e maleducata assiepata ai bordi di un campo terroso (polveroso o fangoso a seconda del meteo) dell’entroterra toscano.
Per l’Audace tutta, ovviamente, insulti e offese, per lui no.
Per lui applausi a scena aperta, e mica per il passato.
Per il presente, per le perle di magia che, seppur quarantenne, sapeva ancora regalare su un campo di calcio.
Con la sua classe metteva d’accordo tutti, compagni ed avversari.
Sublime.
In tanti all’Elba gli devono qualcosa, soprattutto quei bambini a cui lui ha riservato l’opportunità di coltivare “il sogno”, quello vero.
Accadeva infatti che i ragazzini più meritevoli, i più talentuosi, venivano da lui referenziati per fare dei provini con le società professionistiche.
Talvolta li accompagnava di persona, in ogni dove.
Ma sapeva già come sarebbe andata a finire e, in quanto friulano, non era un venditore di fumo, anzi.
Stava sulle sue ed ai genitori (in qualche caso abbagliati da chissà che) amava ripetere questo: “fatelo studiare o trovategli un lavoro e anche alla svelta, se vi aspettate che sto qua campi col pallore, morirà di fame”.
Aveva classe, eleganza, dentro e fuori del campo.
Mai un capello fuori posto, mai un filo di barba, mai un pantalone spiegazzato, mai un colletto sbresciato, mai un polsino arrotolato storto, mai la sciarpa indossata a casaccio.
Elegante e raffinato, e buongustaio, anche.
Del resto, chi nasce a San Daniele del Friuli - il prosciutto, quello squisito, vi dice qualcosa? – certe cose forse le ha nei cromosomi.
Fumatore mannaggia, incallito sì, ma anche lì, raffinato buongustaio: Marlboro dopo il caffè, Muratti per tutto il resto.
E soprattutto mai una parola fuori luogo.
Oddio, qui occorre distinguere, in campo no.
In campo valeva tutto, in campo era schietto, non te le mandava a dire.
Ma fuori dal campo la musica cambiava, era rispettoso dei ruoli e di tutti.
Una persona che gli era intima, rientrata dal suo capezzale pochi giorni fa, mi ha confidato questo: “te lo giuro, non l’ho mai sentito parlar male di qualcuno, e ti sfido a trovare qualcuno disposto ad affermare il contrario”.
A pensarci bene, è vero.
In chiusura vi racconto un aneddoto che però, stranamente, col pallone non c’entra.
A cavallo del millennio Arrigo veniva spesso al Bar Sport a vedere giocare a biliardo, ci passava i pomeriggi.
Gli piaceva l’arte in ogni sua forma ed il biliardo, per certi versi, lo è.
Il livello non era scarso, tutt’altro, altrimenti lui, da buongustaio, non ci avrebbe minimamente degnato di attenzione.
In quella giungla io me la cavavo discretamente e siccome ero l’unico, dentro quella stanza fumosa, ad averci avuto a che fare su un campo di calcio, in cuor mio avevo la sensazione che lui parteggiasse per me.
Avevo ragione ma lui, da genio qual era, tra un silenzio religioso e l’altro, lo esternava al contrario.
Nel senso che, quando combinavo uno svarione, un tiraccio maldestro con esiti catastrofici, lui scuoteva il capo, a volte portandosi addirittura le mani nei capelli.
Ma non era abbastanza, mancava qualcosa, il tocco del fuoriclasse.
Così mi rassegnavo, appoggiavo a terra il calcio della stecca ed aspettavo che lui fotografasse la situazione, con quell’inconfondibile accento friulano.
Gli altri stavano tutti zitti ad aspettare la sentenza, sempre la stessa, puntuale.
Bisbigliava due parole, due sole: “Michelino, disaster”.
E giù risate.
Perché Arrigo era così, anche nel prenderti in giro, eleganza e classe.
Non poteva che andarsene all’alba (e ti pareva), senza clamore, in punta di piedi, col suo stile, con classe.
Quella classe che è stata parte di sé, nel calcio, nella vita, nella malattia, fino all’ultimo respiro.
Probabilmente verrà ricordato proprio per quella classe cristallina, immutata, immensa, immortale.
Scusate se è poco.
Per non cadere nella retorica, basta così.
Eccetto due parole, due sole.
“Arrigo, chapeau”.
Michele Melis