aria di sacrestia e aria di loggia
Qualche settimana fa, il 6 nvembre, avevo scritto: «Finalmente Zecchini si è deciso a annunciare − per la seconda volta − che non mi risponderà più e che non leggerà più quello che scrivo. Quanto durerà? Sono certo che ritornerà all'attacco − furibondo e insultante come sempre − prima di Natale».
Ero stato facile profeta.
In un articolo di Zecchini contro il prof. Franco Cambi, professore dell'Università di Siena, c'è anche una frecciatina − per la verità, non proprio inedita − in direzione di chi ha respirato in modo "deviato" l’aria delle sacrestie.
Sul mio passato e sul mio presente di cattolico ho già detto abbastanza e non mi ripeterò. Voglio soltanto soffermarmi sull'aggettivo "deviato", osservando che questa ammuffita polemica anticlericale sull'aria delle sacrestie (in cui Zecchini potrebbe forse apparire ispirato − absit iniuria verbis − da inclinazioni quasi massoniche) è stata pubblicata − per uno scherzo del caso − proprio nel giorno in cui i giornali annunciavano la morte del maestro venerabile della loggia massonica P2.
E di affari "deviati" − molto, molto deviati − il frammassone Licio Gelli era davvero un insuperabile esperto.
Invece, per quel poco che so io, nelle nostre sacrestie − dopo la Saint-Barthélemy − non sono stati più organizzati né complotti, né colpi di stato, né tantomeno stragi.
non siamo sul set di Ben-Hur : fornisca le prove!
Nel libro di Zecchini, a pagina 267, viene pubblicato un articolo di 18 pagine, scritto dall'Architetto Giuseppe Centauro. Le tesi principali di Centauro sono cinque: le prenderò in esame una per una.
Prima però vorrei riportare alcune frasi di Zecchini, tratte dalle sue recentissime polemiche contro il professor Franco Cambi, che è elbano, è stato alunno del "prestigioso" Liceo Foresi, e − in quanto intellettuale elbano − è il bersaglio "naturale" degli attacchi di Zecchini, il quale, nella sua gelosia, non ha mai risparmiato nessuno.
Zecchini enuncia alcuni princìpi fondamentali, che io condivido in pieno. Ma che lui − purtroppo − pretende di applicare soltanto agli altri.
In data 11 dicembre 2015 Zecchini esprime le sue ferme riserve nei confronti di chi tratta di archeologia ricorrendo alle valutazioni soggettive e alle "proiezioni immaginarie". Infatti − egli dice − ‘verosimile’ e ‘probabile’ non significano ‘vero': quando il livello di indeterminatezza è troppo elevato, Zecchini pensa che sarebbe preferibile dapprima tacere, poi approfondire finché non si trovano certezze.
Zecchini prosegue lamentando che spesso non si esita a usare i media per "sortire un certo effetto" come se fossimo "sul set di Ben-Hur": invece "una maggiore, solida dose di cautela non guasterebbe".
Parole sante.
In data 16 dicembre, rivolgendosi al prof Cambi, riassume così il suo pensiero: "la richiesta che Le ho rivolto, tanto elementare quanto essenziale, fa parte della metodologia archeologica da sempre: fornisca le prove!"
Ricapitolando:
1) bisogna evitare le proiezioni immaginarie, perché non siamo sul set di Ben-Hur.
2) l'archeologo serio deve fornire le prove.
Mentre esamineremo lo scritto dell'Architetto Centauro, queste regole "metodologiche" − solennemente proclamate dallo Scienziato Zecchini, che sembra appena disceso dal Monte Sinai − ci faranno compagnia.
1. IL TOPONIMO "MARCIANA"
Nella nota di pagina 81, anche Zecchini accenna all'etimologia del nome "Marciana", mostrando una cautela che a me sembra molto opportuna. Egli osserva infatti che "Marciana" potrebbe essere uno dei numerosissimi toponimi prediali latini, aggiungendo tuttavia che non è da scartare che "Marciana" possa derivare da un nome gentilizio, cioè dal nome di una famiglia etrusca importante.
Invece l'arch. Centauro abbandona la prudenza del suo fraterno amico Archeologo e, a pagina 277 del libro di Zecchini, si avventura a parlare di un fantomatico "regale personaggio", larth Marcinna, che sarebbe l'eponimo fondatore di Marciana.
Con questa invenzione di re Marcinna − del quale non esiste nessuna traccia né archeologica, né storiografica − l'architetto Centauro riesce a violare, in un colpo solo, tutte le regole di Zecchini: il "regale personaggio" Marcinna è una "proiezione immaginaria", che sembra tratta proprio dal set di un film come Ben-Hur.
Improvvisandosi glottologo, l'Architetto Centauro sostiene che "onestamente" (sic) la parola "Marciana" non può essere altro che etrusca. Ma ad avvalorare queste interpretazioni non fornisce prove, indizi, spiegazioni: gli dobbiamo credere sulla parola. C'è un'allusione agli studi del prof. Pittau, che però non ha mai detto quello che Zecchini e Centauro vorrebbero fargli dire.
L'etimologia del toponimo "Marciana" non è affatto sicura.
Ho letto il libro "Pedemonte e Montemarsale", scritto dell'architetto Silvestre Ferruzzi: anche lui un intellettuale elbano, anche lui un alunno del Liceo Foresi, e − di conseguenza − anche lui bersaglio dello Zecchini.
Ferruzzi, nelle pagine 43 e 34, accanto all'ipotesi del toponimo prediale per cui Marciana deriverebbe dal nome di un antico proprietario, presenta anche un'altra ipotesi, che egli avvalora con molti dati.
L'architetto Ferruzzi segnala che nell'isola esistono numerose località che hanno un nome evidentemente affine a quello di Marciana: Stagno marcianese e Le Marse (Schiopparello), Fonte marcianese e Poggio marcianese (Lacona), Marcianella (Poggio), Fosso della Marcianella (Sant'Ilario), e lo stesso Montemarciale. Per tutte queste Marciane si potrebbe trovare una spiegazione nelle antiche attività di macerazione della canapa e del lino. allo scopo di ottenere fibre per la tessitura.
L'ipotesi è molto convincente. Al pari di quella del toponimo prediale, di cui ora parlerò. Appare invece abbastanza inverosimile che dalla metropoli di re Marcinna siano uscite colonie per andare a fondare un fosso a Sant'Ilario, una fonte a Lacona, uno stagno a Schiopparello.
"Marciana" era usato nell'antica Roma come nome di donna, a cui corrispondeva per gli uomini il nome Marcianus o Martianus.
L'imperatore Traiano, che regnò all'inizio del secondo secolo, aveva una sorella che si chiamava Ulpia Marciana. E in onore della sorella, Traiano volle che due città − una in Tracia e l'altra in Mauritania − fossero chiamate "Marciana".
Nel calendario della Chiesa cattolica esistono due sante martiri che si chiamavano Marciana. Una fu uccisa nell'attuale Turchia durante il regno di Antonino. L'altra fu uccisa nel 303 nell'attuale Algeria, durante la grande persecuzione di Diocleziano.
Sono diciannove i santi − martiri o vescovi o presbiteri − di nome Marcianus. I luoghi in cui hanno guidato le chiese locali o sono stati martirizzati sono molto diversi: Roma, Tortona, Ravenna, Siracusa, Campania, Molise, Costantinopoli, Egitto, Siria... È evidente che il nome era usato in tutto l'impero.
Si chiamava Marciano anche un imperatore bizantino del quinto secolo.
A nessuna di queste persone può essere attribuito un legame con larth Marcinna, con l'Elba o con l'Etruria.
Si chiama "Marciana" la storica Biblioteca di Venezia, che ha sede nel bel palazzo costruito dall'architetto Sansovino proprio di fronte al Palazzo ducale, a poche decine di metri dalla basilica di San Marco: Biblioteca Marciana significa biblioteca di Marco, ossia della Repubblica dell'evangelista Marco.
A Venezia la schola cantorum si chiama cappella marciana. I libri di storia usano espressioni come leone marciano, commercio marciano, Stato marciano, dove "marciano" significa "di San Marco" ossia di Venezia.
In Internet si legge che in latino il nome Marcianus o Martianus significa letteralmente "di Marcio" (o Marzio o Marco) e, per estensione, "di Marte": cioè "sacro al dio Marte".
Quindi anche Marciano e Marciana sono nomi che probabilmente si richiamavano all'antico culto della divinità romana Marte, alla stessa maniera di Marco, Martino, Martana, Marcello, Marziale, Marcia.
Nella storia di Roma antica c'è una famiglia importante, la "gens Marcia", a cui apparteneva uno dei sette re. E ancora oggi esiste l'acquedotto dell'Acqua Marcia: l'acquedotto "marciano", costruito dal pretore Quinto Marcio, era stato tagliato dai Goti, ma fu ripristinato da Pio IX, pochi giorni prima del fatidico 20 settembre.
I nomi e gli aggettivi latini che terminano col suffisso femminile "−ana" (o "−iana") e con i corrispondenti suffissi maschile e neutro sono numerosissimi: addirittura migliaia. E con lo stesso procedimento sono costruiti in italiano molti altri nomi e aggettivi.
"prediale Marcinius"
L'Architetto Centauro si compiace di comporre frasi tentacolari, attorcigliate, sibilline, gravide di paroloni: quei famosi paroloni che servono a rendere complesse le cose semplici. E così, qualche volta, nell'intrico vorticoso dell'ipotassi, gli capita di perdere il filo del discorso.
A pagina 277 Centauro scrive: "eventualmente da far derivare dal prediale Marcinius".
Non è chiaro che cosa si dovrebbe far derivare dal "prediale Marcinius".
Ma soprattutto non si capisce proprio che cosa potrebbe essere questo sconcertante "prediale Marcinius", che compare all'improvviso, senza che nessuno ne sospettasse l'esistenza.
Qual è il concetto che l'Architetto voleva esprimere con le parole "prediale Marcinius"?
Le espressioni "toponimi fondiari" o "toponimi prediali" (in latino "praedium" significa podere, fondo agricolo) indicano nomi di località originati dai nomi di persone (o di famiglie) a cui quei luoghi appartenevano.
Dal nome del proprietario − per esempio, Manzoni oppure Leopardi − si ricavò un aggettivo mediante l'aggiunta di qualche suffisso, come -iano, -ate, -aco, -asco, -eno…: nel nostro esempio, manzoniano o leopardiano.
Quell'aggettivo così ottenuto venne riferito a un nome che spesso rimane sottinteso, come praedium, fundus, campus, ager, massa, villa, domus, aedes, casa, colonia, turris… e anche al neutro plurale praedia (i poderi).
In Internet ho trovato alcuni esempi di toponimi prediali della zona di Livorno e Pisa: Salviano deriva da praedium salvianum: "podere salviano" cioè podere di Salvius. Allo stesso modo, Antignano deriva da podere di Antinius. Lorenzana da praedia (cioè poderi, al plurale) di Laurentius. Luciana da poderi di Lucianus…
In conclusione il toponimo prediale è semplicemente il nome di un luogo: la parola "toponimo" deriva dal greco e significa "nome di luogo". Con l'aggiunta dell'aggettivo "prediale" si vuole precisare che quel nome di una località deriva dal nome dell'antico proprietario (Salvius, Laurentius, Lucianus).
Dunque, se l'espressione "prediale Marcinius" dell'architetto Centauro avesse un senso, dovrebbe significare che esiste nelle terre marcianesi dell'isola d'Elba un paese o una casa o un "magazzino" o una vigna… che si chiama "Marcinius".
Nei miei settantacinque anni di vita non mi è mai capitato di sentirne parlare.
È probabile che "Marciana" sia un nome prediale. Marcinius no.
Marcinius è il nome di un paese di fantasia, proprio come Paperopoli. Potremmo chiedere a Thomas Mazzantini di inserire il paese Marcinius in un suo prossimo libro sui Gormiti e gli Etruschi Marcinchi. Ma, oggi, alle pendici del monte Capanne il paese Marcinius non esiste.
Ho trovato che nel nord della Spagna esiste davvero un paese che si chiama Marcinius; ma non ha nessuna attinenza con le immaginifiche "ipotesi" dell'arch. Centauro intorno agli Etruschi nelle nostre vallate.
un nome latino
In provincia di Arezzo c'è il comune di Marciano della Chiana, per il quale in Internet si legge:
«la dominazione romana ha lasciato i suoi segni persino nel nome del centro abitato. Gli storici in buona parte concordano sulla probabile origine del nome Marciano dal latino Marcianus, relativo ad un vasto latifondo agricolo (fundus Marcianus) appartenuto ad una gens Marcia».
A quindici chilometri da Pisa, nel comune di Cascina, c'è la frazione di Marciana, che in Internet è definita «borgo di origine romana».
Anche per Marciano della Chiana e per Marciana di Pisa possono valere sia l'ipotesi del toponimo prediale, sia quella avanzata dall'architetto Ferruzzi della lavorazione della canapa e del lino.
Per chi volesse approfondire l'argomento, è utile il libro − consultabile anche in Internet − di Antonino Facella, edito dalla Scuola Normale di Pisa. Facella studia i toponimi prediali della Sicilia. Ma su Internet si trovano moltissimi altri toponimi prediali, che sono presenti in tutta Italia. E anche fuori d'Italia.
Gerhard Rohlfs (studioso di linguistica, morto nel 1986) scriveva che nei toponimi (sia prediali, sia non prediali) i suffissi latini −(i)anum e −(i)ana sono il segno più manifesto della colonizzazione romana, dal Portogallo fino alle terre balcaniche. Nella Gallia Transalpina tali nomi sono molto frequenti in una fascia che corre lungo il Mediterraneo. Più a nord la desinenza latina ha potuto affermarsi soltanto in pochi casi come Orléans e Valenciennes. Nella penisola iberica il suffisso latino ha trovato larghissima applicazione nelle regioni settentrionali: è meno frequente altrove.
Dunque i toponimi come Marciana sono di probabile origine latina. Molti di questi toponimi sono prediali. Ma il "prediale Marcinius" è un'espressione priva di senso. Parole vuote: suoni in libera uscita
uno scritto sfortunato
Ho l'impressione che in questo passo del suo articolo l'Architetto Professor Dottor Giuseppe Alberto Centauro, Docente Universitario, abbia preso un granchio.
Per il Professore il toponimo (prediale) non è un toponimo.
Crede che sia il nome del proprietario del fondo agricolo.
Eppure a pagina 61 Zecchini era stato chiarissimo: evidentemente Centauro non aveva letto con la doverosa attenzione.
In questo articolo sfortunato l'architetto Centauro ha collezionato un discreto numero di papere: oltre al travisamento del toponimo prediale Marcinius, ho già segnalato in altre occasioni che ha scambiato i Goti con i Longobardi; ha anticipato di quindici secoli l'istituzione della diocesi di Piombino; ha usato la parola tsunami come sinonimo di alluvione; ha confuso etimo con eponimo (per lui la fuliggine è l'eponimo del nome greco dell'Elba); ha scritto qualche periodo traballante.
Al centauro Chirone − mitologico perissodattilo che fu maestro di Achille, di Giasone e di altri eroi − non farebbe piacere un omonimo siffatto.
Marcinius−Marcinna e il sindaco storiografo
Mi sono chiesto dove l'architetto Centauro ha trovato il nome "Marcinius". E ho scoperto che nel "Dizionario comparativo Latino−Etrusco" il prof. Pittau stabilisce una comparazione (questo è il termine usato da Pittau) fra il latino Marcinius e l'etrusco Marcena o Marcna.
Insomma, Marcinius non è altro che il travestimento latino del solito re Marcinna.
Se arricciamo il naso di fronte alla zuppa Marcinna, l'Architetto ci ammannisce il pan bagnato Marcinius. L'imperterrito Centauro non ci lascia scampo.
Ma stabilire una corrispondenza biunivoca fra Marciana e Marcinius è arbitrario. Abbiamo visto che la biblioteca Marciana di Venezia deriva il suo nome latino da San Marco, e non da San Marcinius.
Sulla scia di Centauro, anche la Giunta comunale di Marciana Marina ha deciso di scrivere una dotta pagina di storiografia, deliberando di andare alla ricerca delle tracce di re Marcinna, nostro Padre fondatore. Anzi la deliberazione della Giunta è stata resa immediatamente eseguibile per inoppugnabili ragioni di urgenza: dopo venticinque secoli di oblio, re Marcinna non poteva attendere neppure un minuto di più.
Dove poi si potranno davvero trovare le tracce di re Marcinna non lo sa nessuno: forse nemmeno Zecchini.
il dott. Azzeccagarbugli
L'eponimo re Marcinna ha la consistenza dei personaggi di un romanzo storico. Come don Abbondio, Tonio e Gervaso, donna Prassede o il dott. Azzeccagarbugli.
L'arch. Centauro (a pagina 277) osserva che nessuno storico latino parla di insediamenti romani all'Elba: da questo silenzio degli storici antichi Centauro si sente autorizzato a concludere che non ci furono insediamenti romani nell'isola.
Eppure sappiamo che Roma sfruttò le miniere di ferro, e che nell'isola e nell'arcipelago restano le rovine delle grandi ville di alcune ricchissime famiglie romane. Perfino nella bibbia zecchiniana, a pagina 128, si parla di "dominazione romana".
Ma i Romani − l'architetto Centauro ne è sicuro − non vennero mai ad abitare nell'isola.
Ergo il nome Marciana non può essere latino. Ergo è un nome etrusco. Ergo Marciana fu una metropoli etrusca. Ergo l'eponimo re Marcinna è esistito davvero.
Una concatenazione logica veramente incalzante: un'inferenza inesorabile come in un teorema di Euclide.
In verità nessuno che abbia anche soltanto un'idea molto vaga della storiografia antica può credere che le opere storiche che ci sono pervenute siano una resoconto completo di tutti i fatti accaduti.
Questa pretesa è talmente stravagante e bizzarra che non è neppure il caso di perdere tempo a confutarla.
Già i logici medievali osservavano che da premesse tutte negative non si può dedurre nessuna conclusione (cfr. Summulae di Pietro Ispano 4.05). All'architetto storiografo consigliamo di studiare un po' di logica. Come diceva il famoso maestro Manzi, non è mai troppo tardi per imparare.
2. IL TOPONIMO "VIA DELLA TOMBA"
A Marciana la grotta scavata nella roccia, al piano terreno della casa degli Appiani, è nota a tutti gli abitanti col nome di zecca degli Appiani.
Ma per Zecchini e Centauro la notizia della zecca è soltanto una "credenza" popolare: un miraggio, una sciocchezza.
Per loro non ha valore neppure la testimonianza − menzionata da Zecchini − di Guido Antonio Zanetti che, nella seconda metà del Settecento (a distanza di nemmeno un secolo dai fatti), scriveva che i Principi di Piombino facevano coniare le monete nella propria Zecca di Marciana.
È il consueto atteggiamento di Zecchini: ciò che non si accorda con le sue tesi deve essere denigrato e scartato (si pensi a come ha bistrattato l'interessante carta geografica resa nota dal dott. Umberto Gentini).
Ha invece valore assoluto il toponimo "via della Tomba".
Il punto di partenza del ragionamento di Zecchini e Centauro è l'antico toponimo di via della Tomba (oggi la strada ha cambiato nome e si chiama via degli Appiani). Ma poiché tra quelle strade non sono note altre tombe, Zecchini e Centauro concludono che la denominazione "via della tomba" deve necessariamente riferirsi − per esclusione − alla grotta. Dunque la grotta non può essere altro che una tomba etrusca.
però c'è un dettaglio: la tomba non è in via della tomba…
C'è tuttavia un dettaglio che non torna: l'unico accesso alla grotta non si trova in via della Tomba, ma in via del Giardino, che un tempo si chiamava via del Cantone e che è una strada parallela di via della Tomba.
Se davvero il nome di via della Tomba deriva dalla grotta, non si capisce perché quel nome non fu dato direttamente alla via dov'è l'accesso alla grotta, ma a una strada che con la grotta non comunica.
Come si legge nella relazione redatta per il Comune di Marciana dall'architetto Luciano Giannoni (a cui sono debitore di molti altri suggerimenti per le mie riflessioni), sembra più plausibile che l'antico toponimo di via della Tomba derivi dal nome della località "La Tomba", che si trova a sud del paese: il nome di "via della Tomba" significherebbe che quella era la via da percorrere per arrivare nella campagna denominata La Tomba, che fino a pochi decenni fa era coltivata a vigneti.
Esattamente come via della Madonna, che − all'interno dell'abitato di Marciana − prende questo nome dal lontano santuario della Madonna del Monte, perché è la via che conduce nella direzione della chiesa.
3. LA TIPOLOGIA
Come argomento principale a favore dell'ipotesi della tomba viene presentata la tipologia della grotta.
Sulla base della tipologia Zecchini ha la certezza di poter sentenziare che la grotta è un ipogeo funerario etrusco di età ellenistica.
Di più: in una intervista a un quotidiano livornese, Zecchini dichiara che è una delle più belle tombe dell'antica Etruria.
Davvero Zecchini pensa che l'ipogeo di Marciana possa reggere il confronto con le tombe delle necropoli di Tarquinia e di Cerveteri?
C'è da chiedersi se il Grande Etruscologo è mai andato a visitare Tarquinia e Cerveteri.
interessanti incisioni
Nell'intervista al Tirreno ho letto anche che ci sarebbero "sulle pareti interessanti incisioni, secondo il costume etrusco, però compromesse dall'umidità".
Compromesse dall'umidità fino al punto che è stato impossibile dare un significato non dirò all'insieme dei segni, ma neppure a un piccolo particolare, come una gamba, un braccio, una mano, un occhio. Niente.
Eppure al Tirreno − che lo ha definito l'Indiana Jones dell'Elba − Zecchini ha detto che le incisioni sono "interessanti".
L'aggettivo "interessante" calza a pennello, perché è nebuloso, poco impegnativo, molto diplomatico. Però fa balenare l'idea che a questa "tomba di Tutankhamon" del ventunesimo secolo spetti un posto di rilievo nella storia delle arti figurative di tutti i tempi. Noblesse oblige.
Non si capisce in che senso si possano definire "interessanti" quei segni che sono più indecifrabili del surrealismo di un quadro di Joan Mirò.
Però ho letto anche questa dichiarazione di Zecchini: "Quando l'ho visto, non credevo ai miei occhi per la bellezza e il perfetto stato di conservazione".
Insomma le "interessanti" incisioni compromesse dall'umidità sono totalmente illeggibili; però sarebbero in perfetto stato di conservazione. Più chiaro di così…
Evidentemente ha ragione Zecchini quando scrive che io non arrivo a capire il suo pensiero.
la cappella Sistina degli Etruschi
Alcuni amici mi hanno spiegato che le "interessanti incisioni secondo il costume etrusco" sono i segni lasciati nella roccia dagli scalpelli quando gli operai scavarono la grotta. E mi hanno raccontato addirittura che qualcuno avrebbe sollecitato l'immediato restauro delle "Interessanti incisioni".
Poi è prevalso il buon senso. E chi aspirava a ricevere l'incarico del restauro, è rimasto a bocca asciutta: la proposta è apparsa troppo indecente e spassosa perfino per farla trangugiare a noi elbani, che notoriamente siamo di bocca buona e che − agli occhi di uno che abita a Firenze o a Prato (si fa per dire) − dobbiamo apparire come trogloditi delle caverne.
A pensarci bene, mi sono convinto che abbiamo perduto un'occasione preziosa: un restauratore in gamba − fantasioso come me lo immagino io − ne avrebbe sicuramente ricavato la cappella Sistina degli Etruschi.
tra miracolismo e vittimismo
Si ritrovano dunque gli ingredienti tipici di queste "scoperte": il mistero, lo stupefacente, l'incomparabile bellezza.
A cui si accompagna l'incomprensione dei burocrati.
Veramente un topos, un ritornello.
Anche per la grotta di Marciana Zecchini non ha dubbi.
Zecchini non ha mai dubbi: non aveva dubbi nemmeno per il cunicolo segreto percorso a cavallo da Castruccio Castracani e dai suoi cavalieri. I dubbi li ebbero invece il Soprintendente ai beni archeologici della Toscana e il sindaco di Lucca Fazzi, che fece immediatamente ricoprire le buche scavate da Zecchini in piazza Grande.
Ma che cosa è la tipologia?
Secondo i dizionari, col termine "tipologia" si intende lo studio e la classificazione di fenomeni, oggetti, individui in base alle loro particolari caratteristiche che dànno origine a raggruppamenti in tipi, cioè secondo modelli. Per farmi capire, suggerirei un paragone con le mode, con le tendenze, che si impongono e restano in vigore per un determinato periodo.
Ora questo metodo di studio è indispensabile e utilissimo. Ma è un terreno molto scivoloso.
Esporrò alcuni esempi, la cui evidenza non ha bisogno di lunghe spiegazioni.
la statua di San Pietro
Nella navata centrale della basilica di San Pietro, si trova − addossata al cosiddetto pilastro di Longino − la scultura in bronzo del primo papa, seduto in cattedra. Per molto tempo gli studiosi hanno ritenuto che le caratteristiche "tipologiche" − fra cui la ieraticità e la posizione frontale con lo sguardo fisso in avanti − fossero bizantine e che la statua risalisse al quinto secolo. Più di recente è emersa la convinzione che l'autore sia invece Arnolfo di Cambio, che fu anche architetto e che, verso la fine del 1200, progettò a Firenze la cattedrale di Santa Maria del Fiore, il Palazzo della Signoria e la chiesa di Santa Croce. La differenza di datazione è di otto secoli. E otto secoli non sono pochi.
la lupa capitolina
Di recente la RAI ha trasmesso un documentario sui Musei Capitolini, in cui a fare da guida ai Musei era il prof. Antonio Paolucci, forse il più noto storico dell'arte d'Italia. Paolucci − che è stato anche ministro dei beni culturali e soprintendente per il polo museale fiorentino − ora è direttore dei Musei vaticani. Dunque una delle guide più autorevoli che si possano immaginare.
Giunto davanti alla statua bronzea della lupa capitolina, il prof. Paolucci spiegava che per alcuni studiosi è un'opera etrusca databile intorno al quinto secolo avanti Cristo.
Invece per altri studiosi − aggiungeva Paolucci − la lupa è una scultura databile fra la fine dell'Impero romano e il Mille.
Dunque fra le due datazioni − stabilite entrambe sulla base delle caratteristiche "tipologiche" della statua − c'è una differenza di circa dieci o quindici secoli: non si può proprio dire che quindici secoli costituiscano una approssimazione accettabile.
il Trono Ludovisi
Su valutazioni tipologiche si fondano le più accese dispute sulla contraffazione di alcune opere celebri, come la "maschera di Agamennone" del Museo archeologico di Atene, o il dipinto delle oche di Meidum del Museo archeologico del Cairo, o il Trono Ludovisi del palazzo Altemps di Roma.
A sostenere che il Trono Ludovisi sia un falso ottocentesco era stato Federico Zeri, per il quale era impossibile che la suonatrice di flauto, che ha le gambe accavallate, fosse stata scolpita in epoca arcaica.
Per l'autenticità della scultura si pronunciò invece Margherita Guarducci (l'archeologa a cui si deve il probabile riconoscimento delle ossa dell'apostolo Pietro, ritrovate sotto l'altare della Confessione). Per lei la posizione delle gambe accavallate è un atteggiamento "tipico". Quanto alle cosce e al petto da popolana di Afrodite, che a Zeri apparivano come incongruenze anacronistiche, si tratta, secondo la Guarducci, di raffigurazioni conformi a altre della stessa epoca, che Zeri avrebbe dimenticato.
Federico Zeri replicò che una figura di donna con le gambe accavallate in epoca greca arcaica sarebbe come un inserto di Picasso in un quadro di Giotto. E per Zeri era un falso anche il trono di Boston.
A favore dell'autenticità dell'opera si pronunciarono due personalità autorevoli come La Regina e Sisinni,
le teste di Modigliani
Zeri concluse che i musei sono pieni di reperti falsi, di cui gli archeologi non riconoscono la falsità perché non hanno esperienza di commercio antiquario. E ricordò la storia delle false sculture di Modigliani, che erano apparse autentiche a molti illustri storici dell'arte.
Nel 1996 accompagnai un gruppo di studenti del "prestigioso" Liceo Foresi a Venezia, a visitare la mostra di Palazzo Grassi dedicata ai Greci in Occidente: in una sala i curatori della mostra avevano collocato sia il trono Ludovisi di Roma, sia il trono proveniente dall'America. Alle pareti erano esposti pannelli con i pareri dei critici, equamente divisi in due schieramenti contrapposti.
Qual è la conclusione? L'ho già anticipata: le affinità tipologiche sono un indizio prezioso per collocare le opere diacronicamente, nel loro contesto storico. Ma l'analisi tipologica è inevitabilmente soggettiva e non può dare certezze.
Disparità di opinioni sorgono persino quando i reperti contengono materiale organico esaminato con la tecnica radiometrica del Carbonio 14. Per la datazione del lenzuolo della Sindone, nel 1988 furono eseguite analisi in tre laboratori di nazioni diverse: ma i risultati, pubblicati sulla rivista Nature, sono stati oggetto di discussioni infinite, che ancora oggi non si sono concluse.
i graffiti di Pino Fabbri
Anche nel lavoro di Zecchini si rinvengono casi di datazioni in base alla tipologia, che sono stati clamorosamente contestati.
Si pensi ai graffiti di Pino Fabbri, che Zecchini aveva definito "di probabile origine etrusca".
Certamente la lettera dell'autore dei graffiti ha suscitato comprensibile ilarità.
Ma cerchiamo di analizzare e valutare il comportamento di Zecchini.
Domandiamoci se Zecchini ha rilevato "scientificamente" la presenza di elementi oggettivi molto precisi sui quali si basava la sua decisione che i graffiti erano probabilmente etruschi.
Evidentemente no. La sua analisi tipologica era una intuizione vaga, una valutazione soggettiva, una "proiezione immaginaria", che non si appoggiava su dati concreti e "scientifici". Ovviamente nessuno dubita della buona fede di Zecchini: nessuno insinua che abbia manipolato i risultati della propria ricerca, come invece qualcuno sospetta che avrebbe fatto Schliemann per la maschera di Agamennone. Ma è innegabile che si trattasse di una "proiezione immaginaria".
Questo errore clamoroso non deve, però, indurci a pensare che Zecchini abbia espresso il suo giudizio con una leggerezza maggiore rispetto a quella mostrata da altri in situazioni analoghe. Per circostanze che non è il caso di esporre qui, io ho potuto sfogliare il bel libro fatto stampare dagli enti locali livornesi in vista della presentazione al pubblico delle false sculture di Modigliani, poche ore prima che il libro fosse mandato al macero, perché proprio in quel momento era stato rivelato lo scherzo. Nel breve tempo in cui ho avuto il libro tra le mani, ho letto alcuni pareri espressi dai più importanti storici dell'arte italiani, i quali scrivevano che le teste scolpite col trapano dai fantasiosi studenti liceali livornesi erano sicuramente opera di Modigliani, per le evidenti e inoppugnabili affinità tipologiche con i quadri del pittore.
Se gli autori della burla non avessero confessato, oggi le "teste di Modigliani" sarebbero esposte in un museo di Livorno.
E nella vetrina di qualche museo potremmo ammirare anche i graffiti etruschi di Pino Fabbri, la pietra con la carta geografica etrusca della pagina 115 del libro di Zecchini, e un'altra lastra di pietra con l'immagine del ghiozzo o della perchia o della giudola in cui, secondo Catarella, l'accorto Archeologo riconobbe l'acronimo usato dal Cristianesimo primitivo. Tutti reperti dichiarati autentici da Zecchini con l'ausilio dell'analisi tipologica.
E a queste mirabolanti opere degli Etruschi Marcinchi e dei loro eredi, altre se ne potranno aggiungere pescando tra lo Scioglietto e capo Bianco, appena il Ciumei avrà comprato i minisommergibili indispensabili per ritrovare Porto Argo.
Però Porto Argo non ha nulla da spartire con gli Etruschi Marcinchi: lo devo precisare prima che Zecchini mi richiami all'ordine. Porto Argo è opera dei Greci: lo sappiamo bene noi portoferraiesi, che dell'arrivo di Giasone alle Ghiaie ricordiamo tutto come se fosse ieri (e invece sono passati trentatre secoli).
E infatti ricordiamo la nave Argo, che aveva il dono della parola (sì: una barca parlante: che c'è di strano?). E la nave Argo riusciva a andarsene in giro per l'Europa non navigando per mare, ma saltando da un fiume all'altro: dal Mar Nero si infilò nella foce del Danubio e ritornò in mare attraverso la foce del Rodano...
E ricordiamo i cinquanta Argonauti, che erano figli delle divinità più potenti dell'Olimpo: figli di Zeus, Posidone, Apollo, Ares, Ermes… Due erano figli del vento Borea − anche lui un dio − e, come il loro padre, sapevano volare: erano l'aeronautica militare di Giasone.
E ricordiamo anche che Giasone, pur avendo a disposizione la nostra darsena, che è uno dei porti più riparati di tutto il Mediterraneo, ebbe l'astuzia di costruire il suo Porto Argo nei pressi delle Ghiaie, pensando di difenderlo dalle mareggiate con un muretto a secco.
Tutti questi ricordi − così realistici, così sicuri − sono stratificati nella nostra cultura popolare. E non v'è dubbio che sarebbe un nostro dovere morale andare a cercare porto Argo con i minisommergibili.
Eppure noi portoferraiesi di oggi non discendiamo da quegli elbani che avrebbero accolto gli Argonauti. Noi siamo i nipoti di quei fiorentini che il Granduca di Firenze inviò all'Elba per costruire Cosmopoli. I nostri lontani bisnonni nel 1300 avanti Cristo non erano qui a pescare polpi fra lo Scoglietto e il Grigolo, ma pascolavano le pecore lungo l'Arno, la Sieve, il Bisenzio e il Mugnone. Non ho mai capito come − senza TV e senza Facebook − i nostri antenati fiorentini abbiano saputo della sosta elbana degli Argonauti.
la carta geografica con Pianosa e Montecristo
A pagina 115 Zecchini mostra la fotografia di un graffito rupestre con due cerchi e tre righe ondulate: e scrive che si tratta di una specie di mappa geografica etrusca, che raffigura il mare e le isole di Pianosa e Montecristo.
Ma tutti comprendono che il disegno potrebbe essere interpretato in molti altri modi e che potrebbe essere stato tracciato da un emulo di Pino Fabbri o da un soldato di Napoleone, o da un eremita medievale, o da un guerriero longobardo o ostrogoto, o da un romano, un fenicio, un argonauta…
Si pensi al cunicolo segreto di Lucca, che per Zecchini sarebbe stato percorso dalla cavalleria di Castruccio Castracani, e che per il Soprintendente è una fogna recente.
Per l'ipogeo di Marciana, Zecchini parla di tomba etrusca del trecento avanti Cristo. Ma il Soprintendente per i beni archeologici di Firenze non condivide affatto l'opinione di Zecchini. E il Direttore Generale del Ministero − nonostante che il Tirreno definisca Zecchini come il maggiore Etruscologo vivente − non si è fatto influenzare dall'autorevolezza dell'Etruscologo Maximo, e si è schierato esplicitamente col Soprintendente.
Qual è l'oggetto della contesa?
L'ipogeo è un lungo corridoio scavato nella roccia con lo scalpello e il mazzuolo. In fondo al corridoio ci sono due piccoli ambienti, uno a destra e uno a sinistra. Come proseguimento del corridoio c'è un anfratto limitatissimo, simile a un armadio a muro, che misura appena un metro quadrato.
Non c'è un'iscrizione, un bassorilievo, un frammento di ceramica.
Quali dati oggettivi autorizzano a stabilire che è una tomba?
Nessuno.
L'analisi tipologica non aiuta. La grotta potrebbe essere una tomba. Ma potrebbe essere invece un luogo fresco, molto ben riparato, dove accumulare neve e sale per allietare i pranzi estivi dei Signori di Piombino.
4. L'EMPORIO DI MARCIANA MARINA, TOTÒ E LA FONTANA DI TREVI
Ma il capolavoro della fantasia dell'architetto Centauro è l'ipotesi che l'attuale Marciana Marina fosse un grande emporio, a cui giungevano le navi dei mercanti da tutto il Mediterraneo. Uno strano emporio, privo di un porto, di un fiume navigabile, di strade, di un hinterland.
L'architetto prospetta anche l'ipotesi che l'Unesco possa considerare le due Marciane, coordinate fra loro, come un tutto unico: una entità talmente insolita nel mondo etrusco, da meritare di essere riconosciuta come patrimonio dell'umanità.
Intanto questa idea mi sembra soprattutto un ottimo spunto per affidare a un architetto di fiducia del Sindaco Ciumei l'incarico di studiare la fattibilità dell'iniziativa. E con la modica spesa − tiro a indovinare − di trentamila euro, quel fortunato Comune potrebbe acquistare un bel pacchetto di relazioni, cartografie, fotografie e filmati da conservare in archivio.
Però, purtroppo, le garanzie sulla risposta finale dell'Unesco sono prossime allo zero.
Si fa presto a parlare di sito riconosciuto dall'Unesco.
Anche la fontana di Trevi venduta da Totò nel famoso film avrebbe dovuto garantire un reddito sicuro. Però tra il dire e il fare…
Ma su questi temi mi soffermerò in una prossima occasione, perché penso che oggi ho già abbastanza abusato della pazienza dei lettori.