Zecchini non sa più come offendermi: ha esaurito da tempo il dizionario degli insulti e delle contumelie. Però, da provetto ricercatore qual è, ha ritrovato, "stratificato" in fondo alla memoria, il nomignolo che mi avevano affibbiato i miei coetanei intorno al 1948 o giù di lì. Mi chiamavano "capone". E ora Zecchini ha scovato finalmente lo strumento per vendicarsi: rilancia, dopo più di sessant'anni, quel nomignolo.
Un insulto sanguinoso, che mi toglie il sonno, mi riduce in polpette, mi spinge alla disperazione.
Lo traduce tuttavia in un sonoro latino maccheronico: "caponius", che è più consono alla sua straripante Cultura classica.
Ricordo che nel dopoguerra noi bambini passavamo il tempo ad azzuffarci per bande e a "canzonarci" con grande accanimento: e, con i soprannomi, volava talora anche qualche innocente sassata. È evidente che col restauro di "caponius" lo Zecchini settantaquattrenne di oggi si immedesima col "fanciullino" che fu, e riassapora l'atmosfera elettrizzante delle accalorate baruffe dell'infanzia. Si sente ringiovanito. Anzi, è più che ringiovanito: è proprio ritornato bambino.
Espressione, questa, apparentemente simile al vocabolo "rimbambito": ma è diversa l'etimologia, e diverso è anche il significato.
Zecchini si occupa volentieri di noi "caponi", ma con giudizi fluttuanti. Nel mio caso la testa grossa è una caratteristica negativa. Invece per un mio omonimo ha composto un ispirato panegirico, con cui ha saputo spuntare un apprezzamento incredibilmente vantaggioso: nemmeno fosse il compianto Umberto Eco.
Lasciamo allora che si balocchi col "caponius" e che gioisca così.
Nel suo comunicato, Zecchini mi attribuisce violenza, livore, cattiveria, veleni.
Di tutto ciò la sezione del suo libro intitolata "Noterelle varie" contiene un ricco campionario. Zecchini ha sbeffeggiato professori di Università, sindaci, consiglieri di opposizione, tutti quelli che si sono occupati di cultura elbana. E perfino i "derattizzatori" di Montecristo. Un amico mi segnala l'eccezione di Celeteuso Goto: è l'unico di cui Zecchini ha parlato bene, forse perché gli è congeniale per la imprevedibile fantasia.
A moltissime di queste persone ha rivolto l'appellativo di asino: in particolare ai soprintendenti e a caterve di funzionari della Soprintendenza archeologica.
Persino per la razzia del tesoro del Pollux, Zecchini ha puntato l'indice accusatore contro la Soprintendenza. L'autorizzazione per il "recupero" era firmata dalla Capitaneria, col consenso del Comando della Marina Militare dell'Alto Tirreno; ma Zecchini si indigna perché la Soprintendenza archeologica non intervenne: non mandò le sue portaerei e i suoi incrociatori all'abbordaggio dei pirati nelle acque dell'Elba.
L'ultima occasione di polemica contro la Soprintendenza è stata la scoperta del secolo: la presunta "tomba etrusca" di Marciana.
Secondo Zecchini e secondo i suoi amici, è evidente che siamo di fronte all'ennesima impuntatura burocratica della Soprintendenza fiorentina: il Soprintendente si è inventato l'ipotesi pretestuosa del deposito di neve e sale, soltanto per fare un dispetto a Zecchini. Per impedirgli di occupare finalmente quel posto glorioso che gli spetta nel pantheon dell'Archeologia mondiale di tutti i tempi.
A Firenze cambiano i Soprintendenti: ma Zecchini, da una vita, viene sistematicamente perseguitato da burocrati meschini, che ─ dopo avergli sottratto il cunicolo o, per dir meglio, l'ippodromo di Castruccio Castracani nelle fogne di Lucca ─ non vogliono capire che lui è «l'Archeologo con la A maiuscola» (la definizione si trova a pagina 9 del libro).
Rosi dall'invidia, non si rassegnano a dover riconoscere che lui è il Maggiore Etruscologo Vivente, come si legge nell'intervista rilasciata a un quotidiano.
Eppure quella grotta non solo è una tomba etrusca autentica, ma ─ come ha dichiarato Zecchini ─ è una delle più belle tombe dell'antica Etruria (sic).
E per di più, è ricca di "interessanti incisioni" (sic). E le arti figurative, si sa, coinvolgono il grande pubblico.
Quando si è diffusa la notizia della lettera del Ministero dei Beni Culturali, che non ha riconosciuto la grotta come tomba etrusca, la reazione è stata che "non è cambiato nulla" (sic). È ovvio che in Soprintendenza e al Ministero hanno le fette di prosciutto sugli occhi.
E poi il Direttore Generale del Ministero e il Soprintendente non contano niente: sono semplici passacarte. L'Etruscologo Maximo, il Vero Scienziato, il Grande Luminare è lui.
Abbiamo letto anche la notizia dell'autorevolissimo giudizio di "un tedesco" (sic) che ha visitato l'ipogeo e ha dato ragione a Zecchini e torto al Soprintendente.
Ma chi era questo tedesco, incontrato per la strada? Anche lui un Etruscologo?
Non ha importanza sapere chi era. La parola "tedesco", per sé, è già una garanzia.
Mi sorge un dubbio: e se quel tedesco fosse un ingegnere progettista di automobili diesel?
In alcuni dei suoi interventi polemici, Zecchini maneggia alla carlona concetti filosofici che non conosce, sbandierando così ai quattro venti i limiti della sua cultura.
Già in un suo scritto precedente mi aveva definito «sacrestan−materialista»: battuta breve, ma intensa, che rivela come Zecchini sia ingenuamente convinto che il concetto di "materialismo" sia un concetto univoco: Zecchini ignora che è necessario distinguere tra i diversi significati del termine.
Non possiamo chiedere al fruttivendolo un chilo di verdura: la "verdura" non esiste: è noto che bisogna distinguere tra carciofi, rape, broccoli...
Allo stesso modo il materialismo inteso come ontologia (ateismo) non coincide affatto col "materialismo storico" che è un metodo (un po' datato) di interpretazione dei fenomeni storici secondo le condizioni materiali di produzione di una società.
Un cristiano (ma Zecchini preferisce dire "sacrestano" che suona più insultante) si contraddice se si dichiara ateo. Ma nulla impedisce a un cristiano di leggere i fenomeni storici privilegiando l'economia, come spesso fa anche l'ultima enciclica di papa Francesco, il quale certamente non è ateo e nemmeno marxista.
Zecchini è invece convinto che quella metodologia della ricerca storica deve coincidere con l'ateismo: per lui, papa Francesco e i teologi gesuiti che hanno collaborato alla stesura dell'enciclica «devono» essere atei.
Zecchini appare dotato di una logica e di una profondità culturale che lasciano sbalorditi.
Allo stesso modo, nel comunicato mostra di credere che esistano un solo modello di sapere e un solo metro per misurare il valore della ricerca: la cultura e la ricerca si misurano col pallottoliere, contando il numero delle pubblicazioni. Dunque Zecchini non è soltanto uno scienziato militante e un grandissimo archeologo: ma è anche un originalissimo epistemologo, un filosofo della scienza, che ha studiato i fondamenti teorici e i metodi della ricerca.
Wittgenstein ha pubblicato in vita sua un solo libro, costituito di poche decine di pagine: eppure Bertrand Russell lo ha definito "il più perfetto esempio di genio che abbia mai conosciuto".
Ma Russell morì nel 1970 e purtroppo non fece in tempo a conoscere Zecchini, il quale ha pubblicato una quindicina di trattati e più di 150 saggi (fra cui quello sui bagnetti dell'Asino d'oro di pagina 167, che raccomando vivamente ai lettori per la profondità "rivoluzionaria" (sic) dell'analisi e per l'inedito concetto ─ di Scajoliana memoria ─ dei falegnami che costruirono i bagni del lungomare «sull'esempio inconsapevole» dei palafitticoli dell'età del bronzo).
Zecchini mi sottopone dunque a una minuziosa radiografia. Parte dall'esame del mio mestiere: e questa è la prima nota dolente per me, perché io sono un ex−burocrate. Poi aggiunge che non è riuscito a trovare le mie pubblicazioni. Ne deduce ─ con grande rigore logico ─ che io non leggo, non studio, non scrivo: la mia ricerca è "inesistente".
La conclusione è che io non ho nessun titolo per esprimere un giudizio su quello che scrivono lui e Centauro: è evidente che io non sono all'altezza né di capire né di commentare. Perciò non ho il diritto di aprire bocca. Posso soltanto applaudire.
Eppure Zecchini e Ciumei hanno fatto distribuire quel libro dagli impiegati del Comune a tutti i cittadini di Marciana Marina. Lo distribuivano ─ in orario di ufficio, dentro i locali del municipio ─ perché fosse letto o perché fossero guardate soltanto le fotografie?
Non ho nessuna pretesa di confrontare la mia oscura pochezza con la radiosa carriera dello Zecchini, che brilla di luce propria come un sole nell'empireo della Scienza: non ha vinto il premio Nobel dell'archeologia soltanto perché non esiste. Ma, in compenso, nel luglio 2014 ha vinto la targa d'argento del Ciumei, che vale almeno quanto un Nobel.
Non ardisco di competere con lui: però rivendico il diritto di esprimere la mia opinione su quello che leggo. Rifiuto la pretesa dello Zecchini di non sottoporsi al giudizio di noi lettori, con la motivazione che noi lettori non siamo all'altezza.
Rifiuto la sua pretesa di essere lui a sottoporre a un esame preventivo noi lettori, decidendo se abbiamo i titoli per leggere il suo libro. Una pretesa che nessuno scrittore aveva mai avanzato prima.
E chi avrebbe dovuto esaminarmi? Forse il sindaco del Guttalax? Oppure l'inventore di re Marcinna e del "prediale Marcinius"? Oppure lo scopritore del Catone francese?
Zecchini pensa che noi lettori dovremmo prendere per oro colato re Marcinna, i cavalieri di Castruccio Castracani galoppanti nelle fogne di Lucca, i graffiti etruschi dell'etrusco Pino Fabbri, la carta geografica etrusca, il ghiozzo dei monaci, le "interessanti incisioni etrusche" della grotta degli Appiani, il porto Argo di "Giasone e &" da cercare con i minisommergibili, l'emporio etrusco di Marciana Marina, l'eponima Fuliggine, gli tsunami che scendono dai monti, la incommensurabile bischerata del "Catone" francese,e tante tante tante altre cose che non stanno né in cielo né in terra. Tutte queste inverosimili cianfrusaglie, che gridano vendetta al cospetto di Dio, noi ce le dovremmo sorbire come prodotti della più raffinata Ricerca Scientifica: scoperte che meriterebbero un Nobel più delle onde gravitazionali.
E magari, un domani, dovremmo considerare Scienza pura anche la radio a colori, la pietra che rende invisibili e la capitale degli Etruschi.
Sì, sì: mi hanno riferito che c'è anche qualcuno convinto di aver trovato la capitale degli Etruschi, i quali, com'è noto, erano organizzati in tante città-stato, tra loro indipendenti.
Ma ─ a scanso di querele ─ prima di rivelarne il nome, devo documentarmi meglio.
Dunque il mio ruolo è quello di uno che ha letto il suo improbabile libro (comprese le accuse contro l'Amministrazione Fratini). Uno che si è sentito offeso da quelle pagine: e che ha voluto manifestare il suo dissenso.
In nome del principio di autorità, Zecchini mi nega il diritto di dissentire.
È severamente vietato dissentire da quello che dice Zecchini: ipse dixit. Accidempoli.
Dopo il mio primo intervento sul fornice, Zecchini poteva rettificare le ingiuriose accuse a Giovanni Fratini e alla memoria dell'assessore Uberto Lupi. E la polemica finiva lì.
Non l'ha fatto: anzi ha voluto rincarare la dose, arrivando a citare anche i desolanti articoli di Mancini, di cui Zecchini ammira la capacità di insultare.
Pensava che le sue ripetute minacce di querela ("e non finisce qui") e le urla scomposte e il linguaggio aggressivo mi avrebbero spaventato e ridotto al silenzio.
Ho replicato: e lui ha risposto in modo sempre più furibondo e confuso e oltraggioso. E la sua polemica si è trascinata per sei mesi, giungendo ora al quel suo sguaiato e indecente compiacimento per la mia malattia.
Non mi meraviglio delle sue reazioni esacerbate, che nascono da lontane frustrazioni, di cui certamente non sono io la causa. Mi meraviglio, invece, di chi gli sta intorno e lo incita a esporsi, sperando di trarne vantaggi politici.
Ho ricordato che questa storia è stata iniziata da Zecchini e Ciumei: un vecchio vanaglorioso e un sindaco malaccorto, convinto di farla franca, che si illudeva di affermare ─ con quella festa pagata con i soldi del Comune e con quella recita sul palco ─ la sua leadership nella destra elbana.
Furono Zecchini e Ciumei a creare una gogna pubblica nella piazza di Marciana Marina nel luglio 2014, strapazzando vigliaccamente persone assenti o defunte.
Ora deve essere chiaro che io non accetto di essere sottoposto alla gogna da uno Zecchini e da un Ciumei. Se vogliono continuare la polemica, io sono qui.
Qualche storico ha scritto che nella prima metà del Novecento c'è stata in Italia la dittatura culturale di Benedetto Croce. Facendo le debite proporzioni fra don Benedetto e lo Zecchini, nelle vallate marcianesi anche Zecchini ha cercato di imporre ─ con la sua ridicola matita rossa e blu ─ una supremazia culturale, atteggiandosi a censore e fustigatore di tutti.
Ora quel tempo è finito. Che si presenti da solo o che si faccia accompagnare dal plauso del direttivo del suo club, Zecchini ha perduto definitivamente ogni possibilità di atteggiarsi a giudice della cultura degli altri. Quel tempo è finito perché sono emersi alcuni fatti che hanno lasciato il segno.
Nessuno potrà dimenticare che al cronista del quotidiano locale il Massimo Etruscologo Vivente dichiarò che nella grotta sotto il palazzo degli Appiani aveva riconosciuto "sulle pareti interessanti incisioni, secondo il costume etrusco, però compromesse dall'umidità".
In realtà quelle «interessanti incisioni secondo il costume etrusco» sono soltanto le tracce lasciate sulla roccia dagli strumenti usati dagli scalpellini quando la grotta fu scavata.
Zecchini ci deve spiegare perché parlò di "interessanti incisioni compromesse dall'umidità". Forse voleva suggerire l'assegnazione di un incarico professionale a un esperto di restauri? Oppure alla base di quel madornale giudizio c'era una colossale incompetenza? Dica lui. Non può trincerarsi dietro la solita frase: "non vale la pena di rispondere". Quell'errore marchiano riduce a zero la sua credibilità di etruscologo.
Se io fossi incappato in un infortunio così colossale e così bislacco, mi sentirei in imbarazzo a uscire per la strada, temendo che la gente si burlasse di me.
A pagina 240 del libro, Zecchini conclude il feroce pestaggio di una delle sue tante vittime, affermando che un errore (corretto nel rigo successivo) in un opuscolo turistico fa troneggiare la nostra Ilva come "l'isola degli ignoranti". Invece le sue "interessanti incisioni secondo il costume etrusco" mostrano al mondo l'Ilva come il concentrato dei sapienti?
Ma come si presenta?
La sua supremazia culturale si è rivelata un bluff miseramente fallito.
Apra gli occhi: la carriera della Vestale della Cultura è finita. Ora tutti sanno che il Grande Luminare è un uomo come noi. Oscuro come noi. Ora tutti sanno che è una sciocca frottola la brillante carriera universitaria, che è stata a lungo raccontata nei chiacchiericci lungo le vie del paese, tra il Vicinato e il Voltone, nella Gretta e sotto la Volta.
I fatti lo hanno ridimensionato: non esiste nessun motivo per tanta boria.
La Costituzione repubblicana gli riconosce il diritto di scrivere tutto quello che vuole. Ma non si azzardi più a demolire il lavoro degli altri: non ha le carte in regola per dare dell'asino a nessuno. Si faccia finalmente i fatti suoi.
Ormai le sue stroncature e le sue sparate suscitano ilarità. E un po' di compassione.
La gente non dimenticherà le «interessanti incisioni secondo il costume degli etruschi» di cui il Grande Studioso ha firmato l'expertise. Con le sue stesse parole Zecchini si è consegnato ai posteri come il Professorone che scambiò le scheggiature degli scalpellini per capolavori della scultura etrusca.
Proprio come le false teste di Modigliani.
Gian Piero Berti