Capita talvolta che qualche, come me stesso, foresto trapiantato all’isola mi parli di altri comuni conoscenti come di “elbani” raggruppandoli in una categoria alla quale non sente di appartenere. Sarebbero costoro, sempre secondo il mio interlocutore, assimilati da comportamenti di complicità che per noi immigrati risultano opachi e, sopra ogni altra cosa, da un senso di diffidenza non aggressiva, una sorta di alterità gentile ma radicata verso coloro che, come me e lui, hanno eletto l’isola a loro terra pur provenendo, per nascita e formazione, da terre diverse, spesso continentali.
Più sento queste affermazioni meno le condivido. Se penso ai miei conoscenti di nascita elbana sono propenso, almeno per molti, a definire la loro identità in base al comune di provenienza, marinesi o piaggesi o che ne so, longonesi e arrivo alla conclusione paradossale che, semmai, gli “elbani” siamo noi che abbiamo scelto l’isola nella sua interezza e che continuiamo a definirla nel suo insieme la nostra casa pur abitando in paesi o borghi o frazioni appartenenti a comuni differenti.
E mi sembra allora evidente che quel senso di diffidenza e di alterità percepito dal mio interlocutore sembra rivolto non tanto verso i non elbani di nascita o di famiglia quanto verso coloro, tutti, nativi elbani e non, che provengono da un altro comune e spesso addirittura da una frazione di uno stesso comune che non sia la loro.
Vorrei evitare equivoci: nessuna graduatoria di merito. Semplicemente un tentativo di cominciare a capire la realtà, di comprendere le ragioni della ancora cocente sconfitta referendaria sul comune unico, i motivi profondi a causa dei quali le unioni di comuni, le gestioni associate, le comunità montane scomparse sono da sempre destinate al fallimento non riuscendo a creare i presupposti per un diffuso germogliare di quella Identità Elbana tanto invocata e tante volte abortita alla prova dei fatti.
Certamente la miopia degli amministratori locali produce danni incalcolabili e fratture profonde fra le varie comunità e, in un gioco di rimando perverso, le comunità locali continuano ad affidare il loro futuro a chi meglio sembra garantire la difesa di interessi circoscritti e particolari, talvolta inconfessabili, contrapposti a quelli dei propri vicini, dei propri confinanti, dei propri simili.
In questo deserto di macerie identitarie un unico ente sovracomunale è sopravvissuto abbastanza da consolidarsi rappresentando la sola forma istituzionale duratura di identità collettiva allargata a tutta l’isola, anzi a tutte le isole dell’arcipelago. Il Parco. E proprio il Parco è, grazie alla sua longevità e al suo, pur lento, radicamento nel territorio, anche la cartina di tornasole che dimostra l’intrinseca debolezza di coloro che lo combatterono (e lo combattono) con tutte le armi, probabilmente gli stessi che si spendono ora contro l’accorpamento dei comuni elbani in un solo ente.
Una maggioranza numerica senza futuro, povera di speranza, forse infelice, incarognita come può esserlo una minoranza destinata all’estinzione.
Un piccolo sollievo lo da il sospetto che al pensiero di una parte, anche consistente, di quella maggioranza si possa adattare un aforisma attribuito a tale Hanlon:
«Non attribuire a malafede quel che si può ragionevolmente spiegare con la stupidità».
Il mitile Ignoto