UN AFFARE DI STATO
Nove senatori del movimento "5stelle" hanno presentato un'interrogazione sulla possibile origine etrusca dell'ipogeo di Marciana, noto nell'isola come la "zecca degli Appiani". Per dirimere la questione, i senatori propongono al Governo una procedura straordinaria, che non ha precedenti: la costituzione di una commissione internazionale di etruscologi che − a spese del contribuente italiano − venga all'Elba per stabilire se ha ragione Zecchini o se ha ragione la Soprintendenza.
Nove senatori sono molti: un quarto dell'intero gruppo di Grillo a Palazzo Madama. La grotta marcianese sembra dunque assurta a problema di rilevanza nazionale. Quasi come il ponte sullo stretto di Messina o le Olimpiadi del 2024. Si prospetta dunque un dibattito culturale di importanza prioritaria, come quello sull'attribuzione dell'invenzione della radio all'italianissimo Guglielmo Marconi o al russo Alexander Stepanovich Popov.
Sono note le vicende recenti di quel seminterrato, scavato nella roccia, che si trova al piano terreno dell'antica residenza dei Signori di Piombino. Dopo aver acquistato la struttura, che da molti anni era abbandonata, nel 2013 il Comune di Marciana la fece ripulire. E la trasformò in un piccolo museo numismatico, che si ricollega al toponimo popolare di "zecca degli Appiani".
Ora i nove parlamentari sostengono che i lavori di pulizia furono condotti in maniera sbagliata: gravemente sbagliata. La principale contestazione è che durante i lavori non era presente un archeologo, col compito di «vagliare e analizzare» scientificamente l'immondizia che fu tolta dalla grotta e trasferita in discarica. L'intervento degli operai − scrivono i nove senatori − è «consistito nello svuotare le aree interne, ed in particolare il corridoio e le due camere, asportando i circa 80 centimetri di terriccio e i materiali depositati sopra la pavimentazione nel corso dei secoli». In questo modo sono stati distrutti «frammenti o reperti che potevano rivestire un interesse storico».
In altre parole, i senatori (o, piuttosto, lo "sconosciuto" che ha fornito ai senatori lo spunto per l'interrogazione) sostengono di essere certi che «nel corso dei secoli» si era accumulato uno strato di 80 centimetri di terriccio, che ricopriva e occultava reperti interessanti per l'archeologia. Magari anche tesori preziosi.
E il lettore, che ricorda d'aver letto l'emozionante descrizione dell'ingresso di Howard Carter nella tomba − rutilante d'oro − del faraone Tutankhamon, è indotto a immaginare che in mezzo a quel terriccio marcianese ci fossero gioielli e armature, ceramiche greche e buccheri, sarcofagi, iscrizioni e − chissà? − qualche scultura raffinata capace di rivaleggiare con la volterrana "Ombra della sera". Ma gli ignari operai comunali, ahimè, hanno spazzato via tutto.
Nell'interrogazione si legge poi che «anche le pareti sono state ripulite impropriamente asportando, insieme con le muffe, la parte superficiale, dove emergevano incisioni». Dunque una ferita irreparabile inferta al patrimonio culturale italiano.
TRE TESTIMONI INSOSPETTABILI
In realtà, queste due notizie − la rimozione del terriccio plurisecolare e l'energica raschiatura delle pareti − non hanno nessun fondamento.
Le affermazioni dell'interrogazione parlamentare sono smentite da tre testimoni al di sopra di ogni sospetto: il dott. Michelangelo Zecchini, il prof. Giuseppe Centauro, il prof. Carlo Garzonio. È opportuno sottolineare che Centauro e Garzonio sono docenti universitari.
Nel libro di Zecchini non si accenna mai all'esistenza di uno strato di terriccio di 80 centimetri. Anzi, dal contesto si desume che Zecchini lo escluda.
Infatti nella planimetria di pagina 84, Zecchini mostra alcune parti aggiunte all'architettura originaria, contrassegnandole col colore rosso e con la lettera "S" ("superfetazioni"). Queste superfetazioni − costituite da mattoni legati con malta − appaiono con maggiori dettagli nei disegni della pagina 85 e in diverse foto. Zecchini scrive che l'apertura tra il vano d'ingresso "A" e il corridoio "B" è stata foderata con due pilastrini di mattoni, sui quali poggia un arco a sesto acuto. Zecchini precisa che l'arco ha un'altezza massima di 210 centimetri rispetto alla roccia del piano di calpestio. Nel corridoio trasversale, che porta alle due celle laterali, si trovano altri quattro archi simili, che furono innalzati per rafforzare il soffitto, forse dopo che nella cella di sinistra la volta aveva ceduto e era stato necessario ricostruirla (restano le tracce della centinatura).
Nella nota numero 159 di pagina 86, Zecchini afferma che i cinque archi risalgono alla seconda metà dell'Ottocento. Poiché i pilastri di mattoni non poggiano sopra il terriccio, ma direttamente sul pavimento, è facile dedurre che, nel momento in cui i dieci pilastri furono costruiti, il pavimento del brevissimo e strettissimo corridoio doveva essere sgombro da depositi di terra.
NEMMENO I PIGMEI
Inoltre il libro di Zecchini suggerisce un'altra riflessione. Poiché il vertice dell'arco dista dal granito del pavimento soltanto 210 centimetri, la presenza di uno strato di terriccio di 80 centimetri avrebbe ridotto sensibilmente lo spazio disponibile per il passaggio delle persone. Una semplice sottrazione (210 meno 80) dimostra che sarebbero avanzati soltanto 130 centimetri: insufficienti anche per il passaggio di un pigmeo. Dunque un serio ostacolo per i movimenti dei vignaioli e dei fabbri, che usarono l'ipogeo come cantina o come officina tra l'Ottocento e la prima metà del Novecento.
Anzi l'altezza effettiva del cunicolo sarebbe stata molto inferiore a 130. Infatti l'arco si restringe a forma di ogiva. Inoltre i due fabbri avevano installato un rudimentale impianto di illuminazione elettrica, costituito da alcune lampadine pendenti da un cavo a treccia, fissato alla parete con isolatori di ceramica. In un cunicolo così basso sarebbe bastata una piccola disattenzione per urtare contro una lampada, infrangerla e restare fulminati.
L'ipotesi che quei lavoratori fossero costretti a spostare damigiane piene di vino o attrezzi pesanti strisciando carponi sullo strato di terriccio è priva di senso. Anche perché esisteva un'alternativa semplice e risolutiva: spazzare il pavimento.
Per pulire una stalla, Ercole deviò un fiume: nella "zecca" era sufficiente una ramazza.
C'ERANO SOLTANTO CALCINACCI
Mi hanno riferito testimoni oculari che gli operai mandati dal Comune hanno portato via un grosso cumulo di macerie: tegole rotte, calcinacci, frammenti di mattone e di sanitari, infissi marci. Materiale che, un po' alla volta, alcuni muratori avevano riversato proprio all'ingresso di quel sotterraneo abbandonato, per evitare la fatica di arrivare fino alla discarica comunale.
E sulla natura delle macerie esiste un'ampia documentazione fotografica.
Non credo che fosse indispensabile un archeologo per «vagliare e analizzare» (sic) tutto quel ben di Dio.
Le dimensioni riportate diligentemente nel libro di Zecchini dimostrano in maniera esaustiva che − al momento delle pulizie disposte dall'amministrazione comunale − non esisteva uno strato di 80 centimetri di terriccio "etrusco". E dunque non è vero che siano andati perduti «frammenti o reperti che potevano rivestire un interesse storico». Se quello strato di terriccio farcito di reperti archeologici è mai esistito, i fabbri lo spazzarono un secolo fa.
INCISIONI INTERESSANTI E MIRABILI
Parimenti infondata la notizia che «le pareti sono state ripulite impropriamente asportando, insieme con le muffe, la parte superficiale, dove emergevano incisioni».
A pagina 89 del suo libro, Zecchini riproduce le fotografie di due piccole aree delle pareti. Le foto mostrano numerose linee oblique, approssimativamente parallele fra loro.
In un'intervista rilasciata al Tirreno il 24 agosto 2014, si legge: «Quando l'ho visto… – dice Michelangelo Zecchini, docente universitario e archeologo di Lucca, ma d'origine elbana – non ho avuto più alcun dubbio. Mi trovavo davanti a una costruzione sotterranea di origine etrusca assai più importante di quelle rinvenute a Vulci… Sulle pareti interessanti incisioni, secondo il costume etrusco, però compromesse dall'umidità».
INVECE IL PROF. DONATI HA MOLTI DUBBI
Se Zecchini non ebbe alcun dubbio sull'origine etrusca della grotta, molti e gravi sono invece i dubbi manifestati dall'etruscologo prof. Luigi Donati, che − dopo una visita all'ipogeo nel dicembre scorso − ha inviato una dettagliata relazione al Soprintendente.
E il prof. Donati è un docente universitario "vero": prima di andare in pensione, è stato titolare della cattedra di etruscologia e archeologia italica nell'Università di Firenze.
Della sua relazione è a conoscenza da mesi anche Zecchini, che però si è guardato bene dal controbatterne pubblicamente le circostanziate obiezioni. Non sapendo cosa rispondere alle critiche del prestigioso archeologo fiorentino, Zecchini è rimasto in silenzio: ha imitato il giunco che − come dice Sciascia − si piega quando passa la piena.
Ma, a compensare il silenzio di Zecchini, ecco che irrompono sulla scena i nove senatori "cinquestelle" che − contro il prof. Donati e contro il Soprintendente − trasformano una questione di archeologia in una querelle politica e si appellano a una commissione internazionale.
COLATE D'ACQUA
Dunque Zecchini ha osservato le incisioni e le ha fotografate e pubblicate. E ha parlato di umidità. Però nel suo libro, nelle molte pagine dedicate all'ipogeo, non ha segnalato mai l'esistenza di danni provocati da pulizie improprie e da raschiature delle pareti.
Ha parlato soltanto di umidità.
Ancora più esplicita è una relazione del 29 settembre 2014, resa pubblica dal prof. Garzonio, che, un mese prima, aveva costatato "come i lavori di svuotamento dei locali e il «traffico» di turisti abbiano inciso sul tasso di umidità al punto da determinare colate di acqua che mettono a repentaglio le incisioni sulle pareti".
Garzonio individuava accuratamente le cause delle "colate di acqua": «le condizioni rilevate in agosto sono sicuramente attribuibili agli interventi e al riuso dell'ipogeo eseguiti senza opportune analisi e valutazioni di impatto e aggravate... dalla forte pioggia».
Quell'avverbio «sicuramente» è categorico e non lascia dubbi: il prof. Garzonio spiegava che l'umidità è determinata dal «traffico di turisti», dal riuso, dalla pioggia, da «processi di risalita capillare di acqua». Però, al pari di Zecchini, neppure Garzonio segnalava pulizie improprie effettuate dagli operai del comune.
Si noti che il prof. Garzonio non è un anonimo turista tedesco che passa per la strada: è il responsabile del "Laboratorio materiali lapidei" e docente di geologia applicata dell'Università di Firenze. Dunque un vero esperto di rocce. Perciò, quando Garzonio, secondo le parole di Centauro, raccoglieva dati per redigere «scientificamente» la sua «perizia», non potevano sfuggirgli le tracce di raschiature, agenti chimici o altre forme di «pulizie improprie», di cui parlano i nove senatori. Una perizia scientifica di un professore universitario non ha il valore di quattro chiacchiere al bar.
Infine il terzo testimone è il prof. Giuseppe Centauro, docente di restauro nell'Università di Firenze: dunque anche lui uno scienziato e un esperto della materia. Centauro scrive: «seppi dall'amico prof. Garzonio che le mirabili incisioni parietali, che pure avevo visto in buono stato di conservazione, si stavano sbriciolando a causa della condensa dovuta agli scambi termici indotti dagli allestimenti e dal flusso incontrollato dei visitatori».
Gli allestimenti erano due piccole bacheche e una scala di legno.
Sul «flusso incontrollato» dei visitatori, mi sono informato proprio presso i "controllori" cioè i volontari che tengono aperto il museo: il "flusso" si aggira intorno a cinquecento persone all'anno. Quali effetti possano produrre questi fatti, io non saprei: mi rimetto al giudizio del Professore, il quale tuttavia non accenna mai a pulizie improprie.
«IN BUONO STATO DI CONSERVAZIONE»
Racconta il prof. Centauro che, quando lui entrò nell'ipogeo per la prima volta (nel luglio 2013, secondo il libro di Zecchini), vide «le mirabili incisioni parietali» e constatò che erano «in buono stato di conservazione». Centauro è testimone che le «mirabili incisioni» non erano state raschiate o cancellate da pulizie improprie. Anzi le incisioni gli apparvero "mirabili": e nel vocabolario Treccani sono riportati questi sinonimi dell'aggettivo "mirabile": eccezionale, incredibile, magnifico, meraviglioso, portentoso, sbalorditivo, strabiliante, stupefacente, fuori del comune, degno di grande ammirazione...
Questo fulgente sfarfallio di aggettivi e perifrasi potrebbe forse apparire eccessivo. Ma l'importante è che un esperto del calibro di Centauro abbia testimoniato che lo stato di conservazione delle incisioni era "buono".
Così parlò il Professore universitario di restauro: e amen.
DUE CALUNNIE SENZA "COPERCELLE"
In conclusione, il documento dei senatori si fonda su due premesse inconsistenti, che sono sconfessate proprio da Zecchini, Garzonio e Centauro.
Eppure i lettori maliziosi − che ragionano col principio del "cui prodest" − potrebbero sospettare che il suggeritore dei nove senatori appartenga proprio alla cerchia degli amici di Zecchini, e che abbia messo in moto una catena di Sant'Antonio fino ai nove senatori, allo scopo di difendere la tesi della tomba etrusca dopo il duro colpo inferto dal Soprintendente e dal prof. Donati.
A favore di questo sospetto non esistono indizi, se non appunto il "cui prodest": ossia l'interrogativo su chi ne possa trarre vantaggio. E perciò io rifiuto l'interpretazione maliziosa e constato invece che l'interpellanza parlamentare presenta una contraddizione insanabile con le preziose testimonianze espresse in precedenza da Zecchini, Centauro e Garzonio.
Tuttavia non si può escludere che qualcuno − molto scaltro − abbia raccontato ai nove senatori una storiella fasulla, sperando che nessuno se ne accorgesse.
Talvolta succede che chi presume della propria scaltrezza, alla fine si rivela ingenuo, perché, come dicevano le nostre nonne, il diavolo fa le pentole ma non le copercelle (variante elbana dell'italiano "coperchi").
Un altro scopo dell'inventore di queste insinuazioni era quello di screditare il Comune e la direzione dei lavori, che notoriamente non sono allineati sulla tesi della "tomba etrusca".
Che penserà ora Zecchini delle calunnie sul "terriccio etrusco" e sulla raschiatura delle pareti? Ricordo che Zecchini, per contestare le mie ironie sui grembiulini massonici di alcuni suoi amici, le definì "calunnie" e pensò bene di citare la condanna della calunnia contenuta nel "Catechismo della Chiesa Cattolica". La citazione zecchiniana è sorprendente, perché quel breve testo è tratto da un grosso volume di 982 pagine, che è risultato molto pesante a me: figuriamoci a lui. Zecchini pubblicò anche la foto della copertina del libro, ma sono convinto che non l'ha mai neppure sfogliato.
Immagino che ora condannerà le insinuazioni calunniose di chi ha suggerito l'interpellanza dei 5stelle.
RESTAURI E PASSIONI
Per i professori fiorentini era urgente monitorare le condizioni delle pareti e bloccare i processi di degrado in corso. Insomma − per parlarsi chiaro − i due professori suggerivano al Comune di Marciana di conferire un incarico a un esperto di restauri.
E chi mai poteva essere il restauratore?
Mi accorgo che la domanda è scivolosa, perché sugli incarichi professionali e sugli appalti si apre un discorso che porterebbe lontano. Mi limito a constatare che il suggerimento non fu accolto. Ne seguì un vivace scambio di comunicati fra il prof. Centauro e il sindaco di Marciana. In una nota del Professore si arrivava a parlare di "maldipancia", "espressioni villane", "argomentazioni spregevoli", "reiterata superficialità", "delibera indecente", attacco tendenzioso e diffamatorio... Centauro protestava anche perché era stata offesa la sua "onorabilità di docente universitario": variante aulica e curiale del più classico "ma Lei non sa chi sono io!".
Mi rendo conto che − soprattutto quando sono in discussione i supremi Valori della Cultura − ci sfuggono "ab irato" parole che, a mente fredda, non vorremmo aver pronunciato mai.
Però resta il fatto che le parole di Centauro erano parole grevi, che lasciano sgomenti. E che fanno pensare. Tanto più perché erano rivolte a una signora.
Quando poi dalla dottoressa Cecilia Pacini, presidente di Italia Nostra, giunse l'invito ad abbassare i toni, ci fu anche per lei una replica molto piccata.
Forse il Professore non riusciva a capacitarsi che, a trecento metri di altitudine, il clima fosse così diverso. Ma il proverbio dice: paese che vai, usanza che trovi.
Gian Piero Berti