Caro Direttore,
“…senza allegria da vittoria. Ma mi sono ritrovato a pensare che forse era meglio così, che forse stavolta non c’era da essere allegri. Quella volta, nel ’74, l’Italia respingeva un tentativo oscurantista di ricacciarla indietro, ma da quel 59 a 41 partiva una lotta verso la modernizzazione, verso nuove conquiste, per l’affermazione dei diritti della persona, era insomma una vittoria all’attacco e bagnata d’ottimismo. Questo –importantissimo- 59 a 41 mi sembra più una vittoria in difesa, e quel che è peggio, poco foriera di spinte verso la creazione di nuove alleanze, di opportunità di sviluppo di una dialettica democratica…”. Così dici nell’editoriale di “Elbareport”, che trovo –come sempre- importante e stimolante, ma che mi lascia perplesso in alcune sue conclusioni.
Come molti sono stato col fiato sospeso fino alle 11 di domenica sera, quando è stato chiaro che il tentativo renziano di costituzionalizzare un pragmatismo senza idee e senza progetti (“partito della Nazione”, che è l’equivalente del “sarò il Presidente di tutti”, cioè “il solo a scegliere”) era stato respinto. Poi ho cominciato a riflette su un altro numero straordinario –viste le elezioni recenti- di questo referendum: quel 68 per cento di elettori che hanno voluto esprimersi. Ed è qui che ho trovato le ragioni di un ottimismo possibile e necessario, da far agire da subito, perché è certamente vero che il momento è difficile.
Come s’usa, dopo il risultato sono venuti subito fuori i vincitori: abbiamo sentito Salvini, che si è attribuito praticamente l’esclusiva della vittoria; abbiamo sentito i portavoce dei 5 Stelle, che hanno rivendicato il merito di aver condotto il popolo al risultato. Ma anche sommando i loro voti, ne mancano ancora tantissimi; e anche sommandoci i voti dei berlusconiani –anche ammesso che tutti gli elettori di ciascuno di questi gruppi abbia votato compatto secondi le indicazioni dei leader (e questo per Forza Italia è assai dubitevole). Mi pare dunque impossibile attribuire a una qualunque forza politica organizzata il merito del risultato. Forse è banale dirlo, ma mi sembra di poter affermare che a votare e a determinare il risultato sia stata la maggioranza del “Popolo” di elettori, che come tale ha dichiarato di non voler aderire al progetto “apolitico” di un giovane dinamico e certamente capace, ma non sostenuto da cultura politica (e poco anche da cultura in genere) e circondato da un gruppetto di Yesmen di modesto peso intellettuale, culturale e politico: insomma, sembra di poter dire, il popolo –nelle sue articolazioni politiche- ha ribadito che di fronte al nulla di idee preferisce tenersi quelle dei propri referenti politici attuali, che sono quelle che sono ma almeno hanno parole d’ordine comprensibili –anche se semplificate al massimo: sicurezza e paura, per la destra; moralismo e risparmio genovese per i 5 Stelle; ognuno per sé, i Berluscones-.
Proprio qui si radica il mio ragionamento. Alla paura e al moralismo Renzi ha contrapposto un pragmatismo –il fare per il fare- che non ha convinto, neppure quando arrivavano i famosi ottanta euri che non si capiva a quale progetto politico corrispondessero, e sembravano una regalia e non il riconoscimento di diritti che certo non potevano valere così poco e non potevano essere così mal riconosciuti. Così molti sono rimasti legati alla paura e al moralismo, e anche quando Renzi ha cercato di scendere sul loro piano –“diminuire i costi della politica”, “ridurre le poltrone”- hanno capito che era un giochino, e non hanno abboccato.
Dunque, esiste un’ampia possibilità di ripartire da capo e di dispiegare ragioni e motivazioni per passare dalla paura (sempre pessima consigliera) e dal moralismo (un po’ vecchio e quasi sempre rancoroso) a un nuovo progetto politico capace di generare sicurezza per tutti –anche quelli che arrivano di lontano-, e giustizia sociale per tutti, puntando a un nuovo ordine economico imposto dal fallimento palese dell’ordine presente: un nuovo ordine che non si può realizzare con l’autotassazione degli emolumenti o con la diminuzione dei costi -da farsi, per carità, che però portano poco lontano, e hanno più un significato di testimonianza che di efficienza-, ma che deve immaginare modelli nuovi di economia, di produzione, di lavoro, di tempo libero, di cultura, di scuola, e via dicendo.
Tutto questo il Partito della Nazione di Renzi ha smesso di fare negli ultimi tre anni, forse per la paura di perdere consensi importanti (paura storica nella sinistra); forse per adesione al neoliberismo di sinistra tanto caro a Blair e Napolitano, che si vede bene dove ha portato; forse per la mentalità da boy scout –come ha ricordato ieri sera Renzi-, che privilegia l’esserci alle ragioni dell’esserci. Il PD si è addormentato nella rassicurante convinzione che non importava far nulla, tanto c’era il Premier che pensava a tutto e per tutti; e ha smesso di esistere nelle realtà locali, che da vivai di formazione ideale e politica sono diventati terminali degli slogan del Centro; e si è preoccupato solo di garantire al Premier Salvatore e Taumaturgo la base di potere istituzionale che ne consolidasse e stabilizzasse l’“azione”. La minoranza ha tentato di reagire, ma è stata ridotta al silenzio dalla illusione di onnipotenza che –al centro come in periferia- ormai identificava il partito con il Segretario. Lo stesso è avvenuto per le voci esterne, anche prestigiosissime, della così detta Società Civile. E come già la “gioiosa macchina da guerra”, anche “l’uomo forte al comando” ha portato al disastro.
“Corda che troppo è tesa / spezza se stessa e l’arco”, diceva un antico uomo di sinistra, il senatore Giovanni Prati, poeta ottocentesco. Ora è il momento dei forti, caro Sergio. Ora bisogna rimboccarsi le maniche tutti, perché la situazione è grave. Come dopo il terremoto, come dopo l’alluvione. Durante la campagna referendaria una domanda retorica dei sostenitori del SI’ era: “qual è l’alternativa a Renzi? Salvini, o Grillo, o Berlusconi –parliamone come da vivo-?”. Ancora una volta la paura (pessima consigliera sempre), ampliata dai media nazionali e internazionali e dalle “istituzioni” dell’economia e della finanza, si avvolgeva su se stessa. Bene. Ora l’alternativa bisogna crearla, e non se ne può fare a meno. Non perché Salvini o Grillo o Berlusconi facciano paura. Ma perché possiamo ragionare con gran parte di quel 68 % del popolo italiano che ha dichiarato di essere interessato a ricominciare a parlare di politica, che vuole cogliere un’occasione che pareva ormai per lui estranea e rituffarsi nella partecipazione a scelte possibili che ci facciano uscire dal pantano, senza paure o moralismi.
Domenica sera si è aperta una finestra che porta aria nuova. Stiamo pronti a riempircene i polmoni e a rispondere alla drammatica richiesta di politica che quell’aria nuova ci porta. Prima che la finestra si richiuda, e ci si ritrovi di nuovo prigionieri degli sterili rituali di Facebook o del delirio di Whatsapp.
Luigi Totaro