L’ometto paffutello e bonario aveva l’aria di scusarsi porgendomi quella carta piena di timbri, fitta di termini giuridici e del “latinorum” degli avvocatoni; scorrendola velocemente realizzavo: a venti anni dai miei primi articoli era la prima volta che ricevevo una citazione giudiziaria.
A sentire quella carta avrei infangato, nei giorni del Moby Prince, il buon nome di un’azienda di navigazione, causandole un enorme danno economico, probabilmente una cifra molto superiore a quella che avrei potuto ricavare in due vite del mio lavoro.
Ricordo la grande impressione che mi fece e la preoccupazione, portata soprattutto dentro, delle gravi conseguenze che pensavo sarebbero potute derivare a me personalmente, alla mia famiglia e al mio giornale di allora, l’Unità.
Rilessi forse 20 volte quell’articolo, che era solo una pura elencazione di (provati o provabili) fatti tra l'altro non direttamente correlabili alla strage livornese alla ricerca dei possibili "punti dolenti".
Quello che più mi bruciava era che quella carta con tanti bolli, bollava pure me come diffamatore. Presi a stendere le mie considerazioni sull’articolo e su quello che mi si contestava e scrissi 15 pagine a commento di 30 righe per dimostrare la mia innocenza.
Giorni e giorni tesi finché non parlai con il difensore che mi aveva fornito l’Unità: un antico signore delle aule giudiziarie che continuava improntare al partenopeo la sua parlata nonostante la lunga permanenza meneghina.
“Lette 'e carte, me pare ca te stai a preoccupa’ pe’ ‘na strunzata – disse poco canonicamente, e mentre mi restituiva la nostra doviziosa relazione, aggiunse recuperando la lingua italica - stai tranquillo che ci pensiamo noi …”
Così feci e non ne seppi più nulla, evidentemente il mio “crimine” non sussisteva.
Imparai da quella vicenda a non farmi impressionare più di tanto da altre carte di avvocati o “carte con bolli”, che mi giunsero nei successivi anni da altri soggetti,
fortemente inclini a citare e a minacciare e/o dare querela.
Li accoglievo sempre più tranquillamente, con in testa un adagio di mia madre: “Male non fare, giustizia non temere”.
Storie diverse sul racconto di fatti diversi, accuse ed annunci di terribili azioni legali che fecero ognuna il loro percorso, finendo quasi ciascuna in una sua fase procedurale (non presentata, ritirata dai promotori, rigettata dai PM, archiviata dai GIP, giudicata inammissibile dai GUP per insussistenza) riuscendo solo in un caso ad arrivare in dibattimento: quello terminato con l’esborso di 41.000 euro per spese legali del querelante (un ministro della repubblica assai brusco e altero) , e soprattutto (per quanto mi riguardava) ancora una volta con il riconoscimento di non aver violato la legge, esercitando (ne discende) in modo corretto, legale ed onesto, il mestiere dell’informare.
Il “settimo sigillo” ha spedito nel mio personale dimenticatoio un incartamento sul frontespizio del quale c’è scritto:
Moby (Bis) – Diffamazione, “culpa in vigilando”, articolo Bruno Paternò del 20.10.2006 (!!!) difensori Avv. Gina Filippini e Lucia Mannu –
Esito: Sentenza del Giudice delle Udienze Preliminari del 14.12.2012 (NDR: 6 anni e quattro giorni dopo il presunto misfatto !) di non luogo a procedere PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE.
Cari lettori, ora che dopo altri venti anni il primo giro si è compiuto, e, come nel gioco dell’oca, sono tornato alla casella del citante di partenza (
Ho frequentato le aule dei tribunali sempre e solo per difendermi da accuse (di privati soggetti) che si sono sempre dimostrate non vere o inconsistenti, non ho mai personalmente querelato anima viva, anche di fronte a dimostrabili fatti e possibili testimonianze che me lo avrebbero consentito, sono un incorreggibile “pacifista giudiziario” convinto che in tribunale ci si debba andare per le cose serie e non per le “strunzate”.
In italia però spesso accade (Dio ci fulmini se facciamo riferimenti locali) che potenti signori, avendo soldi da buttare, seminino querele contro chi è per loro scomodo (magari per la bizzarra abitudine si raccontare la verità al volgo) o anche solo perché non si iscrive al club dei leccaculo per vocazione, o ancora perché è insensibile alla potenziale crescita del suo budget pubblicitario. Il giochino ha spesso un ritorno extra-giudiziale in quanto "il coraggio uno non se lo può dare" e molto spesso il riottoso con la minaccia di un'azione giudiziaria in corso, si zitta o si ammorbidisce.
Per contrastare certi atteggiamenti, che finiscono per tradursi nel tentativo conculcare la libertà di avere opinioni e di rendere più difficile l’informazione dei cittadini, sarebbe auspicabile una modifica di norme e procedure che (senza attendere le controquerele di parte) tuteli maggiormente i vari Davide che se la devono vedere ogni giorno col Golia di turno.
Per usare un termine di moda, lo si potrebbe fare codificando anche un nuovo tipo di stolking, perché, senza piangersi eccessivamente addosso, uno che si ritrova di fronte al settimo, ingiustificato a norma di legge, attacco giudiziario, (uscendone indenne e senza l’aiuto di prescrizioni, indulti, depenalizzazioni alla Silvio), peraltro portato anche da gente che dopo averci provato ci riprova, almeno un pelo perseguitato, si può sentire.
Termino cari lettori scusandomi per il tedio che posso avervi procurato e ringraziandovi di essere ancora così tanti, e capaci di farci sentire sostegno, per riuscire a continuare a lavorare, nonostante la fatica in certi giorni sfiancante, nonostante le difficoltà derivanti dal nostro essere poveri di soldi e dal loro essere poveri di spirito, un pauperismo che neanche la Caritas può alleviare.