Carissimo Pietro Gori,
ho atteso il tempo che si placasse la polemica sulla nota vicenda della piazzetta che portava il tuo nome. Non mi andava di scrivere in giorni in cui si squadernava il peggio e il meglio di questa isola. Perché a differenza di quanto canta Battiato si può restare calmi e indifferenti anche quando tutti intorno fanno rumore. E perché scrivere per parlare agli altri spesso non serve a niente. Per questo sto scrivendo una lettera a un morto.
È la seconda volta che mi rivolgo direttamente a te. La prima fu a fine 2010, quando ti chiedevo scusa (o per meglio dire, chiedevo scusa alla tua memoria) del fatto che nessuno di noi si stava accorgendo del centenario della tua morte. Forse in quel caso a qualcosa è servito, dato che qualcosa è stato fatto. Non lo so.
Ho detto seconda volta. In realtà è la terza. La seconda è stata nel momento in cui ho avuto notizia dello scippo che hai subito. Ti avevo scritto una lettera che volevo non fosse letta da nessuno, quasi un promemoria personale di questo periodo. L'ho cancellata, dopo averla riletta poche ore fa. Forse perché era troppo pasoliniana.
Già, Pier Paolo Pasolini. Vorrei poterti dire che in questi sette anni dalla prima lettera è cambiato tutto. In realtà temo di essere cambiato solo io. C'è stato un distacco dalla tua figura e un avvicinamento a quella del poeta corsaro. Ho studiato Pasolini come a suo tempo feci con te, al limite dell'ossessione. Volevo quasi entrare nella sua testa, nel suo mondo, anche lasciarmi violentare da lui, se necessario. Decifrarlo, decodificarlo. Esattamente come con te, anni fa.
Ma ho scoperto che siete due riferimenti diversi. Forse se vi foste conosciuti, vi sareste stimati. Dubito che vi sareste apprezzati: tu, fedele al tuo sforzo utopico di innalzare quello che una volta si sarebbe chiamato (e chissà perché non chiamiamo più) sottoproletariato; Pasolini che invece ingenuamente lo considerava già la classe più elevata, e vedeva piuttosto la borghesia come una deviazione perversa della società.
Tu che ti appigliavi a quel futuro radioso e di eguaglianza. Lui che vedeva nel benessere un'impostura. Tu dagli ideali così alati, tanto da illudere che potesse quasi esistere una rivoluzione gentile. Lui così urticante, da insinuare il tarlo del dubbio nelle comode certezze di tutti.
E così da anni penso: ci vorrebbero più Pasolini, in questo momento, in Italia. E non più: ci vorrebbero più Pietro Gori. Perdonami Pietro: può apparire indelicato dirtelo, ma è così. E dio solo sa se mi piacerebbe avere un'opportunità di parlarti di questo e altro, in qualunque luogo e anche solo per pochi minuti.
Ma poi è successo di nuovo. Quando il tuo nome è tornato alla ribalta, mi si è agitato qualcosa dentro. Sono tornato a sentirmi un pizzico goriano in più. Ma non pasoliniano in meno. E che le due cose possono andare di pari passo.
Che per certi ideali non mi hanno mai tolto il gusto di essere incazzato, per dirla alla Gaber.
Che per una petizione online che ho lanciato, più di 500 persone hanno pensato con identico spirito. E molti hanno lasciato un messaggio non banale. E che possono passare decenni ma è fantastico quando una persona così limpida rende comunità centinaia di individui.
Che esiste un mondo vivo e caldo di idee, passioni e memorie; e un mondo freddo, burocratico, protervo nel far strage di cultura e storie. Ci è dato di far parte solo di uno di questi due mondi, e non considerare l'altro che alieno. O abdicare all'indifferenza: ma di questa si bei la maggioranza, e tanti auguri di un non futuro.
Per questo, carissimo Pietro, diversamente da sette anni fa, adesso solo l'altro mondo ti deve chiedere scusa.
E che si vergogni anche un poco.
Per sempre tuo,
Andrea Galassi