Oggi lascio l'isola, un'ora dopo il previsto, con quest'immagine. Il portellone di una nave che mi si chiude sul muso. Nonostante lo scatto di pochi metri che mi ha ricordato che, per frequentare l'isola ci vuole allenamento.
Nonostante le occhiate speranzose date con cadenza regolare allo schermo di un cellulare che, dismessa temporaneamente la sua funzione, si prestava ad essere sostituto di un ticchettante orologio sottolineando l'ineluttabile verità del tempo.
Nonostante le strampalate teorie di accordi segreti tra autorità portuali, aziende dei trasporti (ma credo, in un eccesso di amore per l'intreccio, di aver considerato della partita anche ministeri, massoneria e servizi segreti) per coordinare arrivo e partenza. Nonostante il senso civico che mi ha impedito di chiedere all'autista dell'autobus che da Marina di Campo avrebbe dovuto condurmi verso una nave che sapevo di perdere, di accelerare, incurante di codici e regole di sicurezza. Come se quel pedale affondato, quella accelerazione, potesse essere una rivolta, un manifesto contro la mancata evoluzione del genere umano che, nonostante millenni passati a calpestar la terra, ancora non riesce a vincere la stupidità della burocrazia e rendere agevole spostarsi da e su un'isola senza ingolfarla con mezzi privati.
Nonostante tutto ciò ho dovuto accettare che l'autobus della Cpt mi abbia depositato alle 14.05 in terra di Portoferraio con straordinaria sincronicità con la nave della Toremar che lasciava la medesima alle 14.05.
E stato così che, il portellone che si chiudeva inesorabile, oltre a regalarmi un'ora in più di pensieri e attesa, mi ha lasciato la voglia di pigiare su quell'accelleratore e, con l'amico autista, sognare un'altra isola possibile, in cui anche gli spostamenti siano un diritto e non un lusso da turisti estivi.
Guido Ricci