Quel 10 agosto di venti anni fa era da poco passato mezzogiorno e mezzo e lui aveva appena preso un aperitivo con un amico all’osteria di San Martino (all’epoca gestita da Giulio Corsi), ma non poteva dilungarsi, doveva sbrigare delle commissioni in paese.
Salutò il suo amico come al solito e saltò in sella.
Quando accese la moto, io col motorino ero all’altezza del “Padovano”, venendo all’ingiù da San Martino verso Portoferraio.
Allo stop rallentai e proseguii, la strada era deserta.
Dopo circa cento metri, vidi una macchina, una piccola utilitaria bianca, ferma in mezzo alla strada, senza nemmeno le quattro frecce.
Subito davanti, con indosso pantaloncini blu e maglietta bianca, una scarpa sì e una no, un corpo sull’asfalto, a faccia in giù.
Ma era fermo, era immobile. Era morto, era lui.
La sua moto, una Suzuky 750, non era visibile se non parecchio lontano, in uno spiazzo sottostante la strada, dove era terminata la folle corsa.
Bene o male, ci si rende conto dalla gravità di un incidente stradale da tutta una serie di indizi: il traffico a singhiozzo (o bloccato proprio), le ambulanze, le forze dell’ordine, i rottami.
Ed in un certo senso, quando si arriva sul luogo esatto, ci si arriva “preparati”, anche al peggio se vogliamo, in quanto la mente ha già elaborato di tutto.
Non fu così per me, perché mi ritrovai catapultato in un orribile scenario senza alcun preavviso.
E, a poco più di vent’anni, senza nessuno che mi suggerisse come comportarmi in una situazione come quella, quando la morte è lì e la tocchi con mano.
A darmi la notizia, a rivelarmi l’identità di lui fu il suo amico, quello di prima, Daniele, che, sentito il botto, sopraggiungeva dall’osteria a gambe levate.
Urlava come un matto e piangeva come un bambino.
Era veramente disperato. Non avevo mai visto, prima, una persona così disperata.
E non l’ho mai più rivista dopo.
Ma aveva focalizzato la situazione: una sgassata micidiale, in pochi metri cento e passa km/h. E gli imprevisti, con quelle popò di accelerazioni, su queste strade sono fuori controllo.
Con un vocione attaccò un mantra, un disco incantato che suonava così: “Antonio! Che hai fatto! Noooooo! Antonio! Che hai fatto! Noooooo!”
Poi, prima che si scatenasse il finimondo, con la trafila di cui sopra (ambulanze, traffico bloccato ecc…), mentre Daniele girava alla tonda posseduto dalla disperazione ed io sempre impietrito sul mio motorino, ecco il gesto.
Un gesto di pietà, forse il più bel gesto che ho mai visto in vita mia: il conducente dell’utilitaria bianca, una signora di mezza età che era venuta via dalla spiaggia, scese di macchina, tirò fuori l’asciugamano dalla borsa del mare, si diresse verso il corpo ormai senza vita di Antonio e lo coprì.
Cominciò dal capo proseguendo verso le ginocchia, con delicatezza, ma senza tentennamenti.
Ci voleva coraggio - e stomaco - per fare quel gesto.
No so se quella signora sia mai ringraziata per quel gesto, ma credo che nella concitazione successiva quel gesto sia passato inosservato.
Quello che contava era che Antonio non c’era più.
Si chiamava Antonio, Antonio Lunetta, finanziere, originario della Sardegna, felicemente sposato con Martina Mortula e babbo di Michela.
Una giovane e bella moglie ed una piccola bambina troppo presto lasciate, rispettivamente, vedova ed orfana di padre.
Le dinamiche degli incidenti mortali a due ruote sono tutte uguali e diverse, semplici e complicate allo stesso modo, a che servirebbe soffermarcisi?
Nessuno ha mai potuto ridare indietro Antonio ad una madre, ad un padre, ad una moglie, ad una figlia, a tutti coloro che gli volevano bene.
Lo conoscevo bene ad Antonio, era anche di casa.
Babbo, senza mai avvisare, era solito rincasare per “merenda” alle sette e mezzo del pomeriggio accompagnato da amici, ed ogni tanto Antonio figurava tra questi.
Mamma, che dopo si incazzava come una bestia perché magari avrebbe voluto essere messa al corrente di un invito a cena multiplo, sul momento rimaneva impassibile, anzi sfamava in quattro balletti la comitiva, facendogli poi leccare i baffi con praticamente niente di già pronto.
Il ricordo che avevo di Antonio - una persona solare con un’allegria infinita e contagiosa - fu offuscato, sempre di più, dall’immagine del corpo esanime.
Non che io lo volessi, per carità, ma la realtà era quella, c’era poco da fare.
A distanza di mesi cominciai a svegliarmi anche di soprassalto di notte, avevo gli incubi, a cadenza piuttosto frequente.
Mamma mi sgamò e mi disse: “Perché ti svegli la notte? Cosa c’è che ti toglie il sonno?”
Provai a farfugliare qualcosa, ma la mamma è la mamma, e per una mamma un figlio è un libro aperto.
Così vuotai il sacco e gli chiesi se ci fosse bisogno di un aiuto esterno, di un dottore insomma.
Lei mi rispose che sì, un rufolacervelli (lei li chiamava così) sarebbe servito, prima però avrei dovuto fare una cosa: “la prossima volta che vai in Sardegna, vai a trovare Antonio dov’è seppellito, a casa sua. Quando sarai lì, ascolta il tuo cuore”.
Così feci.
Andai al cimitero del suo paese, Alà dei Sardi (un paesino semi sperduto nell’entroterra) e gli feci visita.
Stetti lì 45/50 minuti, esattamente il tempo in cui, quel maledetto giorno, rimasi impietrito sul motorino.
Poi feci visita ai genitori Ottavio (scalpellino d’altri tempi) e Marieke (donna tuttofare olandese con la forza di due uomini), gli dissi chi ero e mi diedero il benvenuto, conoscevano già il mio babbo, era già stato lì.
Capirono la mia frustrazione, ma Antonio era il loro figlio ed anche se gli incubi mi perseguitavano, la tragedia non era certo la mia.
Siccome apprezzarono il fatto che dall’Elba ero andato fin laggiù per posare un fiore sulla tomba di Antonio - non ero certo il primo, né fui l’ultimo - finì che mi invitarono anche a pranzo.
Ottavio morì l’anno dopo. Marieke, rimasta da sola, tornò in Olanda ma, da qualche anno, è di nuovo in Sardegna.
Tanto per cambiare mamma aveva ragione: non ci fu mai bisogno del rufolacervelli, gli incubi sparirono e non tornarono più.
Però, ogni volta che transito da lì - abitando a San Martino quel tratto di strada lo percorro più volte al giorno - non mi viene naturale tirare di lungo come se nulla fosse.
Incastonata nel muro a sassi c’è la stele ed io un’occhiata ce la butto, sempre.
Michele Melis