Cimabue il Buono
IL MISSIONARIO
Per lui il modello ideale di sindaco era un ibrido tra un Caudillo sudamericano e un Mandarino del Celeste Impero.
Come i profeti biblici, aveva ricevuto la Missione di guidare il popolo dell’antica Marina di Marciana verso la terra promessa: verso un Futuro Grandioso.
Quando incontrava i «sudditi», ricorreva ai trucchi che aveva imparato da giovane alla scuola di recitazione.
Per principio, dava sempre ragione a tutti. Era pro TAV e anti TAV. Tifoso della Lazio e tifoso della Roma. Per Bartali e per Coppi. Monarchico Savoiardo in mezzo ai savoiardi. Repubblicano in mezzo ai repubblicani.
Secondo i canoni della dialettica hegeliana rivisitata in salsa Cimabue.
Affabile, accondiscendente. Lo sguardo suadente e benevolo. La gestualità pacata, rassicurante. La voce felpata, senza iattanza. Dalle sue labbra uscivano parole nobili e magnanime: Comunità, Bene Comune, Vocazione e, soprattutto, Servizio. Si proclamava ‒ con la sua innata umiltà ‒ il “Servo dei Marinesi”, riecheggiando l’antica formula del “Servo dei servi di Dio”.
Era la “Cara Guida”, il sostituto naturale di Santa Chiara, il nuovo Santo Patrono, il Buono.
San Cimabue il Buono.
Ah, che attore! Non poteva dimenticare che la sua prima passione era stata il teatro, dove gli applausi vanno all’attore che sa fingere meglio.
Però con chi non si piegava, diventava sprezzante e cattivo. Anzi «gattivo», come si dice alla Marina quando si vuole rimarcare l’ accanirsi in cattiveria.
L’EREDITÀ DEL PROZIO D’AMERICA
Quando accondiscese ‒ con celata ritrosia e quasi controvoglia ‒ a diventare il Primo Cittadino, non era spinto da inclinazione verso il “cumannari”. In spirito di servizio, obbedì all’Imperativo categorico: il dovere per il dovere.
E sùbito si convinse che la sua creatività non poteva impantanarsi in mezzo alle scartoffie polverose degli uffici del municipio. Ecco perché fece la scelta di “servire il popolo” in una forma alternativa. Se ne stava sovente, spaparanzato al bar, a ridere e scherzare e giocare a boccette.
Tranquillo e sicuro di sé, sotto gli occhi di tutto il paese.
Che però intanto gli pagava lo stipendio. Dodici stipendi all’anno per dieci anni: centoventi stipendi. In cambio di un «Servizio permanente effettivo» soprattutto a presidio delle poltroncine del bar. E di tante pacche sulla spalla, generosamente elargite in giro. Quel modo di interpretare la Missione gli andava a fagiolo. Per quella Missione si sentiva “Vocato”.
Per dieci anni è riuscito a vivere così: immerso full time nella sua onirica recitazione, nella sua favola bella.
Una gran botta di fortuna.
Meglio dell’eredità di un prozio d’America.
Per il Sindaco-Missionario, l’Età dell’oro era diventata realtà. Nella “Terra promessa” lui c’era entrato davvero.
LES ROIS FAINÉANTS
Aveva organizzato la gestione del potere secondo il modello francese dei «rois fainéants» (i Re Fannulloni).
In Municipio quasi non alzava un dito. La gestione degli affari correnti era per lo più delegata al maestro di Palazzo, al Maior domus.
Lui, invece e intanto, volava alto.
Tra un torneo di boccette e un “camparino”, era concentrato a fantasticare sul progetto Dubai.
Sognava a occhi aperti il «Porto nuovo». Cemento, imbonimenti, “piccolissimi” belvedere, viali su palafitte, moli, pennelli, distributori, gru a scomparsa rapida…
Molte chiacchiere. Molto, moltissimo fumo. Un grande castello di carte, costato più di duecentomila euro.
E senza compicciare mai un tubo.
«Meditare» in panciolle al bar ‒ assaporando e centellinando e degustando la Missione ‒ era proprio una bella vita.
Non si sa come, qualcuno gli mise una pulce nell’orecchio: gli parlò del titolo ‒ inquietante ‒ di una vecchia poesia di Pavese : «lavorare stanca».
Allora si ricordò che in dialetto napoletano il sinonimo di lavorare è “faticare”.
“Faticare”? Rimase di sasso. Profondamente turbato, sbigottito.
Come i bimbi sulla giostra, che non vorrebbero scendere mai e insistono per un altro giro, anche lui decise di fare un altro giro. Chiese il terzo mandato.
Immaginava di restarsene ‒ vita natural durante ‒ abbarbicato alla poltrona (con annesso biliardo).
Mica scemo!
LOS INDIVANADOS
Buongiorno, Signor Sindaco.
Buonasera, Signor Sindaco.
Si accomodi, Signor Sindaco.
Per lui era una goduria vedere marinesi e “foresti” tutti lì, a scappellarsi.
E ‒ in un paese dove siamo avvezzi anche a qualche autocattedratico ‒ c’era persino chi lo chiamava “dottore”. Con deferente ossequio e senza sghignazzare.
Stipendiato, addottorato, riverito, temuto. Che vuoi di più dalla vita?
Lo stipendio non era lauto ‒ è vero. Poco più di un reddito di cittadinanza. Ma tutto grasso che cola, se misuriamo le sue presenze in municipio. A suo modo era un precursore. Oggi per i “ragazzi” come lui è stata inventata una parola nuova: “indivanados”. Gli stravaccati sul divano.
E ora confida che transiti un’altra volta l’autobus diretto all’Età dell’oro. Lui sta già lì, alla fermata, in attesa speranzosa.
«GATTIVERIE»
Nelle elezioni amministrative gli è stata inflitta una disfatta epocale, a cui non si rassegna. In Consiglio comunale appare frastornato: reagisce in modo astioso, arroccandosi in polemiche che non hanno sbocchi. È arrivato a forme di ostruzionismo durante i discorsi del dott. Martini, rumoreggiando e interrompendo in continuazione.
Lo strappo col suo predecessore aveva pesato sull’esito delle elezioni: e Cimabue se l’è legato al dito.
Ma l’ostruzionismo è una madornale caduta di stile, che non gli farà guadagnare voti.
In paese tutti sanno che, per i postumi di un intervento, il nostro amico Giovanni non può alzare la voce, e quindi Cimabue il Buono ha compiuto - vociandogli contro - un gesto di inutile «gattiveria», rivelando un animo puerilmente vendicativo. Credo che anche tra gli elettori suoi molte persone resteranno sgradevolmente sorprese.
FIGURETTE
Questa caduta di stile non è l’unica. Ha inviato una lettera, in cui rinfaccia alla Sindaca di fare “colossali figure di cacca”.
Cimabue non arriva a capire che con un linguaggio così sbracato si è esposto a una ben magra “figuretta”. Siamo messi in cattiva luce anche noi cittadini, che abbiamo avuto come nostro rappresentante un arnese politico così spiacevole.
Già nella sua prima lettera alla Sindaca ‒ pochi giorni dopo le elezioni ‒ minacciava denunce alla magistratura. E ora le minacce di denunce vengono ripetute in modo compulsivo. Eppure, ricordiamo una sua lettera dal tono strappalacrime, in cui piagnucolava di essere la vittima della “cattiveria” dell’opposizione che, aveva «buttato fango e odio tra le nostre strade». Ma da quando è in minoranza, sulle denunce ha cambiato opinione.
Convinto di farsi bello di fronte al pubblico, pretende di distillare ‒ con sussiego ‒ altissimi concetti di filosofia politica, andando a raschiare il fondo del barile dei suoi sbiaditi ricordi scolastici. Così ha partorito alcuni pensierini intorcinati, di cui arrossirebbe un bimbo della scuola dell’obbligo. E poi ‒ nella smisurata opinione che ha di sé ‒ si è premurato di mandare ai giornali quel testo allucinante.
Così i lettori hanno potuto ammirare l’originalità del Cimabue-pensiero. Scherzi tragicomici della presunzione.
Confesso che, quando ho visto che il meschinello si era messo alla gogna da solo, mi ha fatto quasi pena.
SANTIAGO MATAMOROS
Assume toni burbanzosi e strafottenti. Crede di spargere il terrore in Consiglio comunale, esibendo il muso ingrugnito e l’occhio trucido. Sembra un attore sopra un palcoscenico di provincia, impegnato a recitare la parte del “Santiago matamoros”. Non capisce che i suoi contorcimenti esagitati inducono gli ascoltatori a pensare che la sconfitta elettorale gli deve bruciare molto. Più il Ciumei si dimena e scalcia, e più il “nemico” si diverte.
Quando però il nuovo Consiglio deve deliberare per ripianare i debiti fuori bilancio che lui aveva lasciato in eredità, Cimabue si affretta a deporre i panni del “macho” spietato e tiglioso, e cerca di sottrarsi furbescamente alle spiegazioni, svignandosela con la coda tra le gambe: impegni assolutamente “inderogabili” lo attendono altrove.
Altri impegni inderogabili gli impedirono di essere presente ai festeggiamenti del cittadino onorario Manrico Murzi, intellettuale, poeta, traduttore di Marguerite Yourcenar (dell’Académie française) e di Nagib Mahfuz (premio Nobel).
IL BRUTTO SPETTACOLINO SUI GETTONI DI PRESENZA
Ho letto su Elbareport l’ultimo cameo recitato da Cimabue, nelle vesti di attore non più protagonista.
I giovanissimi di Marciana Marina hanno eletto un loro Consiglio comunale, che è stato ricevuto in municipio dal Consiglio comunale degli adulti. La minoranza non ha partecipato e ha inviato alla Sindaca una lettera di protesta.
Motivo della protesta? Lo spreco scostumato dei gettoni di presenza ai consiglieri. Una somma vertiginosa: otto euro per ciascun consigliere. In realtà i consiglieri di maggioranza hanno rinunciato agli otto euro e il Comune non ha speso nulla. Sembra che Cimabue abbia dimenticato come venivano spesi i soldi quando governava lui.
Mi limito a una brevissima rassegna. Ottantamila euro per l’acquisto di lampioni dotati di dispositivi informatici: dispositivi che però lui non è stato capace di mettere in funzione.
La festa in piazza ‒ a spese del Comune ‒ per consegnare targhe d’argento e celebrare scoperte storiche sensazionali come l’acropoli del Chiuccolo, re Marcinna, la tomba etrusca, la fuliggine eponima (sic!), l’esistenza del porto di «Giasone e &» (sic!), San Cerbone perseguitato dai Goti (sic!), il Cotone che si sarebbe chiamato Catone…
Duecentoventimila euro per il Piano regolatore del porto nuovo (sonoramente bocciato dagli elettori). Altri trentamila per il Concorso di idee per il porto nuovo: un concorso il cui unico scopo pareva essere quello del «brumeggio elettorale».
Cinquemila euro regalati alla società Sbisbiglio di Campi Bisenzio, che nessuno in paese ha mai conosciuto.
I centoventi stipendi che i marinesi hanno pagato a lui, mentre lo vedevano stravaccato al bar.
In che mani era finito questo paese…
Gian Piero Berti