Chi ha avuto la sfortuna (ma per qualche verso anche la formativa occasione) di dedicare un anno e passa della sua vita al servizio di leva, sa bene cosa significa l’allocuzione “marcare visita”.
“Marcavano visita” coloro che la mattina chiedevano di essere sottoposti a visita medica per essere ricoverati in infermeria o quanto meno di “imboscarsi”ed essere esentati dai servizi.
Orbene tra i “marcanti” una fortissima componente era costituita di norma dai “lavativi” che, semplicemente, non avendo voglia di fare una benché minima sega, amplificavano smisuratamente i sintomi e gli effetti di un infimo malanno (ed appena gocciolava loro il naso si mettevano a tossire come Violetta nella Traviata) o si inventavano dal nulla dei morbi atroci che li avevano ghermiti e che all’atto di entrare in infermeria trasformavano il giovanotto che fino a qualche minuto prima saltava come una cavalletta (l’insetto classicamente usato per la similitudine sarebbe un altro, ma so’ pure permalosi, meglio evitarne la citazione) in un rattrappito mucchio d’ossa e di carne che si trascinava a stento, devastato da sindromi dolorose a carico di tutti gli apparati.
Di norma la sceneggiata non andava a buon fine, ed il lamentoso si trovava in mano un cartoccio contenente dai due ai quattro pasticconi di acido acetilsalicilico dell’Istituto Farmaceutico Militare, e ritornava tra le grinfie dell’immancabile carognone di sergente che per tutelarne la malferma salute lo teneva al coperto (magari a pulire con olio fetente i cannoni o in camerata a nettare i cessi).
Orbene, a proposito del marcare visita, è accaduto che anche una vecchia roccia come il nostro amato ex-premier, noto anche per le sue performance fisiche (lavora per sedici ore al giorno e tromba per otto), sia stato colto da improvvido male, così grave da dettarne l’inderogabile necessità di un ricovero ospedaliero. Per puro caso ciò è accaduto proprio nei giorni in cui si dovevano tenere due udienze di due diversi processi giudiziari a suo carico, ma come è noto uno mica decide quando ammalarsi, e poi gli illustri clinici che si affannano al suo capezzale hanno emesso una diagnosi quasi ferale: “Congiuntivite, uveite, fotofobia”, che tradotto in ferajese significa: “gli frizzano e gli pisciano l’occhi, gli dà noia ir sole”
Il nostro già provato dalla malattia è stato trattato come un marmittone lavativo, come un impiegato assenteista, ha dovuto subire l’onta di una visita fiscale, commissionata dai pervicaci magistrati e evidentemente effettuata da un medico comunista (anzi nazista a sentire gli adepti) che ha stabilito insensibilmente che un collirio e un paio d’occhiali scuri bastavano e avanzavano per metterlo in condizioni di rispondere delle sue azioni in tribunale.
Forse il nostro ha sbagliato la condotta della sua linea difensivo-sanitaria, ha marcato visita per la malattia sbagliata, doveva palesare tutta la sua tribunalosi, la bocassinite che lo devasta, l’incurabile togofobia che lo tiene sveglio come e più della susina.
E in luogo del frizzore oculare, doveva denunciare il ben più imponente (ancorché metaforico) frizzore che avverte in altra regione anatomica, collocata tra l’una e l’altra chiappa.