Quando Babbo mi ha chiesto di accompagnarlo in Sardegna, come potevo dirgli di no?
Lui è di lì e lì ci sono i suoi (4) fratelli, sparpagliati un po’ ovunque e tutti acciaccati (mettiamola così).
Gli anni passano.
“Però andiamo subito” gli ho detto “che poi comincia la scuola e coi miei (4) bambini è un casino”.
Siamo appena imbarcati sulla nave a Civitavecchia e la traversata fino a Cagliari, sia pur viaggiando di notte, è lunga.
Vabbè, ci sarà la wi fi.
Infatti c’è. Pagando, ma c’è.
Dopo aver cenato al ristorante self service della nave - un conto sfarzoso per un cibo pietoso - mi avvio alla reception per attivare sta benedetta wi fi, già pregusto la lettura indisturbata dei giornali ed un massiccio bombardamento su netflix, sky go ecc…., quando ecco che mi appare lei.
O meglio, loro.
Antonia e Raimonda, due sorelle cagliaritane, più vicine agli ottanta che ai settanta.
Antonia lavora a maglia coi ferri delle calze delle nonne.
Ma guarda te la donnina come t’inganna il tempo: ce n’è abbastanza per incuriosirmi e non poco.
Mi siedo accanto a loro ed attacco bottone, chiedo altresì il permesso, accordato, di scattare una foto.
Ad ogni mia domanda per lo più generica, segue sempre una risposta sintetica ma dettagliata, com’è nello stile dei sardi.
Generici i sardi non lo sono mai e se fanno una cosa, non la fanno per caso.
Antonia non stava semplicemente ingannando il tempo, stava lavorando.
Lavorava per sé, l’opera tra le sue mani era un centro per il suo comò.
Lavoro coi ferri a maglia ma con cotone sottile, roba per palati fini.
Il nome del cotone sotto i ferri? Cordonetto speciale n. 25, di più sottili non ce n’è, così mi dicono.
Più è sottile il cotone, più è difficile - e bello - il lavoro, così mi dicono.
Mi fido. D’altra parte, anche volendo, come potrei dimostrare il contrario?
Scopro un sacco di cose.
Scopro che Antonia ha conservato una vista eccezionale, immacolata da vent’anni a questa parte, una vista da falco per l’età che ha.
Scopro che quei ferri da maglia, anche loro sottili (sembrano stecchini per spiedini), hanno più di settanta anni e sono stati ereditati da una zia, suora.
La stessa zia che le ha tramandato questa tradizione, questa passione, quest’arte.
Perché di arte si tratta.
Scopro che quei ferri, una volta deposti con cura, sono maneggiati come reliquie.
Scopro che le signore sono anche tecnologiche, eccome.
Armeggiano a quattro mani col telefonino e mostrano, con l’orgoglio tipico dei sardi, a me e ad una signora che era lì con noi, i loro lavori.
Pardon, capolavori.
L’ultima cosa che scopro però è come un cazzotto nello stomaco.
Scopro che quest’arte andrà perduta, niente discepoli.
“Porterò i miei segreti con me”, sospira Antonia.
Rimango basito, incredulo.
Antonia ha tre figli e quattro nipoti (e ce ne sono di femmine, ce ne sono), ma non ha insegnato niente a nessuno.
“Eh! Ci ho provato, eh! Certo che ci ho provato, ma non ha attecchito”.
Attecchire.
Eccola qui l’innata capacità di sintesi dei sardi: nessun altro verbo renderebbe meglio l’idea.
Come mai allora non ha attecchito?
Non lo so e non lo voglio sapere, perché mi fa paura.
Forse, fino ad una ventina d’anni fa, terreno fertile per attecchire ci sarebbe anche stato.
Di sicuro, c’è che questa moderna tecnologia trasmette di tutto, ma non i valori.
Non vado più alla reception e tiro giù queste righe, di getto, prima che l’abbandono tra le braccia di Morfeo ne offuschi le parole che sono già scolpite in mente.
Una volta in cabina poi, comincio a divorare “Dentro i segreti di Maranello”, una raccolta di memorabili corsivi firmati Franco Gozzi, il braccio destro di Enzo Ferrari.
La notte la passo così, meravigliosamente quasi tutta in bianco.
Al diavolo la wi fi.
Michele Melis