“Lungo la strada provinciale che da Portoferraio conduce verso l'Elba occidentale, poco prima di Procchio, semi-nascosta dalle chiome degli alberi, lungo il pendio che porta al mare, c'è una vecchia casa con una bella storia che parla dei primi turisti appassionati di quest'isola”. Così inizia la descrizione di Maria Pia Cunico e Paola Muscari sulla villa la Triglia, uno dei tanti bei siti dell'isola catalogati nel loro libro “Giardini nell'isola d'Elba” (Olschki, 2007). Passata proprietaria fu la signora Gisella Selden Goth.
Purtroppo di questa figura oggi si è un po' persa la memoria. Eppure stiamo parlando di una delle donne più influenti della cultura italiana, soprattutto musicale, del secolo scorso. Nacque a Budapest nel 1884, e si appassionò da giovanissima di musica. Fu allieva nientemeno che di Béla Bartòk e Ferruccio Busoni, a cui in seguito dedicò una biografia. Nel 1923, insieme alla figlia decenne Trudy, elesse come sua residenza Firenze, e nella sua bella casa, al 5 di via Michele Lando, passò il gotha della musica mondiale: Arturo Toscanini, Wilhelm Furtwängler, Bruno Walter, Dimitri Mitropulos.
Ma non solo Firenze entrò nel suo cuore. Si innamorò anche dell'Elba. Soprattutto di Procchio. Restò colpita da uno dei golfi più belli dell'isola, e quelle pendici all'epoca coperte da vigneti e orti, su splendidi terrazzamenti, che dalle erte più ripide scendevano al mare fin quasi sulla sabbia delle spiagge. Negli anni '30 acquistò uno di quei terreni, quasi un balcone sul mare, con la punta della Guardiola a fare da incantevole quinta. Su di esso era già presente una struttura, presumibilmente un cascinale, data la natura agricola della zona, già segnalata nella mappa catastale ottocentesca. Gisella la ristruttura in maison de plaisance, dotandola anche di campo da tennis.
Il suo nome viene ricordato tra gli ospiti illustri dell'isola da Fortunato Colella, in un articolo sullo “Scoglio”, in cui celebra i “favolosi” anni Trenta.
Ma quegli anni Trenta non furono affatto favolosi. Potevano esserlo per la generazione di Colella, che viveva allora la giovinezza. Ma non lo furono per gli ebrei, soprattutto l'ultimo scorcio, quando nel 1938 il regime fascista promulgò le ignobili leggi razziali.
E non lo furono per Gisella che lo era, ebrea. Per lei l'Italia divenne da patria d'elezione a terra inospitale. Le leggi infatti espellevano tutti gli ebrei stranieri e quelli che avevano preso la cittadinanza dopo il 1° gennaio 1919. Oltretutto i fascisti dovevano mal sopportare l'amicizia dell'intellettuale con Arturo Toscanini, noto e fiero critico del regime. Così il 1° settembre, insieme alla figlia Trudy, dovette imbarcarsi a Genova sul piroscafo Saturnia, destinazione Stati Uniti. A malincuore la bella villa la Triglia fu venduta pochi anni dopo.
A New York proseguì la sua attività culturale. Dovettero essere anni molto gratificanti per la sua vita. Anche Trudy si ritagliò uno spazio di primo piano come ballerina. E Gisella mostrò gratitudine per il paese che l'aveva accolta, donando alla prestigiosa Library of Congress di Washington un'importante raccolta di autografi musicali. Nonostante questo, continuò a sentirsi italiana nel cuore.
Passata la peste nazifascista, tornò infatti nell'amata casa fiorentina, e riprese la sua vita di appassionata di musica. Nel 1965 donò all'Istituto superiore di studi musicali Pietro Mascagni di Livorno la sua cospicua raccolta di spartiti, documenti e vario materiale musicale. Oggi solo una minima parte è ancora conservata a Livorno: infatti il grosso fu acquistato nel 1987 dalla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, dove si trova tuttora.
Dopo il suo ritorno in Italia, anche il rapporto con l'Elba dovette riallacciarsi. È infatti significativo che la figlia Trudy, che continuava a dividersi tra New York e Firenze, alla sua morte, nel 1974, chiese di essere sepolta all'isola, come ne dava notizia il New York Times (l'articolo originale potete leggerlo qui). La straordinaria vita di Gisella Selden Goth attraversò quasi un secolo: morì infatti a Firenze il 5 settembre 1975.
Tornando a quei giorni bui del 1938, è da segnalare l'articolo che il Telegrafo, nella cronaca di Firenze, dà della notizia della forzata partenza di Gisella: il giornalista le augurava un sarcastico buon viaggio, aggiungendo “spiacenti di non poter completare la convenzionale frase con... un felice ritorno”. Oggi probabilmente il miserabile di turno userebbe formule da sfottò fascistoide da social, come “ciaone” o “bacioni”. Alla faccia di quel giornalista, Gisella un felice ritorno lo ha fatto. Ma così non è stato per milioni di altri ebrei.
Questo dovrebbe spingerci a fare un esercizio, oltretutto adesso che siamo vicini al Giorno della Memoria. Tutti siamo portati a empatizzare per Gisella e le vittime di quelle orrende leggi. Più difficile è pensare che cosa avremmo fatto se fossimo stati i lettori di quell'articolo, o addirittura chi doveva scriverlo. Avremmo riso per quel sarcasmo? Ci saremmo indignati? Avremmo fatto qualcosa o ci saremmo detti “non è affar nostro”?
Poniamocele quelle domande, chiediamoci chi vogliamo essere, come reagiremmo, anche (soprattutto) ai nostri giorni, quando per esempio siamo di fronte a un fatto del genere. Solo così avremo sviluppato gli anticorpi forti per non sottovalutare messaggi, politiche e atti pericolosi. E non essere complici di tragici sbagli.
Andrea Galassi