Immaginate cari lettori cosa potrebbe provare uno che si diverte di tanto in tanto a giocare al calcetto con gli amici, che per una serie di stranissime cause si trovasse, una sera di punto in bianco, sotto i riflettori di un grande stadio a giocare una partita di serie A.
La mia avventura nel giornalismo è cominciata più o meno così, con una precipitosa corsa dall’aula consiliare verso il primo telefono disponibile e verso una concitata telefonata a Roma, all’Unità che stava per “chiudere” l’edizione del giornale che sarebbe stato in edicola la mattina di martedì 10 aprile 1973, giusto quaranta anni fa.
“Chiamo da Portoferraio all’Isola d’Elba, qui la DC in consiglio Comunale si sta spaccando, tre o quattro di loro usciranno dal gruppo consiliare e costituiranno stasera, con la sinistra, una nuova maggioranza”
Le parole furono esattamente queste: le avevo organizzate mentalmente avvicinandomi all’apparecchio per risultare preciso e credibile.
“Sei un corispondente?” Mi rispose in un romano pacioso un redattore, che incalzò subito dopo il mio dinieniego: “Sei un giornalista?”
“No – risposi imbarazzato – ma ho scritto qualcosa per ..”
“Che me stai a dà er curriculum? - mi interruppe – prova a butta’ giù ‘na dozzina de righe e richiama entro mezzora, mejo venti minuti”
Ero stupefatto e impaurito e la preoccupazione crebbe di più quando sentii, in chiusura della telefonata, il mio interlocutore che rivolgendosi ai colleghi i cui ora brusii ora vocii avevano fatto fino ad allora da sottofondo: “Ahò rega’ me serve un colonnino in seconda ..”
Dai giornaletti locali all’Unità, sia pure fortuitamente, era un bel salto e poi in seconda pagina .. Credo che buttai giù quelle righe pestando sui tasti di una Olivetti
E’ passata quasi una vita dai turbamenti di quel venticinquenne ferajese che aveva imboccato quasi per caso la porta di una delle cattedrali del giornalismo dell’epoca, il giornale fondato da Antonio Gramsci, una testata di parte, senza dubbio, ma prestigiosa, che richiedeva una cifra, una capacità di scrittura alta, professionale, che pretendeva rigore stilistico e sintattico anche dall’ultimo dei suoi corrispondenti.
Più che altro ora faccio da “nave-scuola” e, dopo un mare di altri articoli, dopo aver cercato di non invecchiare avulso, tentando di restare al passo con la rivoluzione informatica e con le trasformazioni che ne sono derivate alla professione del raccontare il quotidiano, cerco di insegnare ad altri questo mestiere.
Lo faccio perché sono convinto che, si ragioni dell’intrecciare parole o di qualsiasi altro lavoro a forte componente artigianale, chi non sa trasmettere al prossimo almeno una parte di quello che ha appreso, chi non sa farsi crescere intorno le piantine che svetteranno quando la sua professionalità darà meno frutti o si sarà disseccata, valga in fondo proprio poco.
Lo faccio perché in questi 14.610 giorni tutto è cambiato ma in fondo nulla è cambiato dell’essenza di questo lavoro, così come i “fondamentali” che per me sono necessari per farlo dignitosamente: saper comunicare, non avere padrini né padroni, avere il coraggio di sputare alle stelle, essere capaci di faticare, saper guardare il mondo con gli occhi degli altri.
Il resto lo si può anche “raccattare” strada facendo.