Mi sembra che fosse l’anno in cui nel corridoio della scuola elementare Antonio Braschi, che divideva le classi e le porte di legno sottile di quello che è oggi è il Comune di Marciana Marina, comparve scritto sui muri col pennello un entusiastico, conciso ma gigantesco, apprezzamento per l’apparato riproduttivo femminile, del quale probabilmente l’imberbe imbianchino (come noi tutti) sapeva poco o niente. Una scritta che le maestre, nonostante in realtà cercassero attivamente di scovare l’autore (più probabilmente gli autori), fecero finta ostentatamente che non esistesse fino a che non fu cancellata.
Io e Franco Galletti eravamo nati a poche settimane di distanza, ma non eravamo nella stessa affollatissima classe (credo in terza elementare), forse Franco era già stato bocciato. Ma è difficile ricordare come fossimo messi esattamente: allora la scuola elementare era come un caotico villaggio dell’India, qualcosa di castale, dove maschi e femmine erano divisi per banchi ben distanziati e colori di fiocchi e grembiuli, poi c’era un’ulteriore selezione per file di banchi, con i più somari felicemente in fondo a spararsi semi di lentisco con le cerbottane di canna o a scambiarsi caragnattole per innescare le tagliole. Le quarte e quinte pullulavano di pluri-ripetenti già brufolosi che non avrebbero mai raggiunto la scuola media o che ci si sarebbero incagliati subito per poi abbandonarla non appena raggiunti i 14 anni. Poi c’era la classe differenziale, dove venivano parcheggiati quelli che erano considerati gli irrecuperabili, i disturbatori seriali, gli iperattivi, soprattutto poveri. Era tra queste ultime due caste scolastiche che avevo tutti i miei migliori amici e molti tra loro erano anche i migliori a giocare a pallone nel campetto polveroso butterato di sassi della Soda, oppure a giocare ad interminabili nottate al sasso, cercandoci tra le pieghe notturne delle strade e sui tetti, mentre il resto del Paese era seduto nei bar, abbacinato davanti alle prime televisioni in bianco e nero.
Franco Galletti, l’ultimo della tribù dei “Berchioni”, figlio di Imperia, era già allora il doppio più forte di noi e tutti gli stavamo abbastanza alla larga, compresi i più forti e temuti, come il mi’ cugino Cruscioff e Beppe il Nero. Io allora ero già amico di Franco, andavamo nella sua affollata casa, con le stanze separate da paratie di compensato a vedere la televisione che, incredibilmente, aveva e dove nel 1968 avremmo cantato a squarciagola «la freccia nera fischiando si scaglia è la sporca canaglia che il saluto ti dà vieni fratello è questa la gente che val meno di niente perché niente non ha, ma se il destino rovescia il suo gioco nascerà nel mattino una freccia di fuoco la libertà», tutti segretamente innamorati della giovanissima Loretta Goggi.
Insomma, questi eravamo noi, convinti che il mondo fosse quasi giusto così. Selvatici cacciatori di lucertole, catarulli, ramarri e pettirossi, ma sognatori quanto bastava per immaginarsi con la maglia della nazionale, della Juve o della Fiorentina o, come Yuri Gagarin, nello spazio siderale, oppure a caccia di tigri con Sandokan e Tremal-Naik o di banditi con Tex, il Grande Bleck, Pecos Bill e Capitan Miki.
Tutto cambiò in quel corridoio una mattina d’inverno. Mentre eravamo in classe sentimmo un frastuono di voci e, nonostante la nostra giovanissima maestra, la “Cattina”, ci richiamasse all’ordine, spalancammo la porta e ci trovammo di fronte a una scena imperdibile: in mezzo a un cerchio di bimbi eccitati, che urlavano “Franco, Franco, Franco!”, e di bimbe orripilate e piangenti, Franco Galetti stava prendendo a cazzotti una supplente ancora più giovane della nostra maestra. Era una ragazza, almeno così la ricordo, alta e bella, con i capelli lunghi e neri, pallidissima, con gli occhi grandi pieni di stupore e terrore, e con le braccia inutilmente protese a fermare quella furia che la stava colpendo ai fianchi senza pietà, fino a che non si accasciò a terra e non si sentì la voce autoritaria e temuta della maestra Berti, la moglie di Parigi, l’unica che con un solo sguardo era riuscita a far restare i suoi scolari in classe, che ci zittì e, mentre ci aprivamo come il Mar Rosso per farla passare, ordinò a Franco di smetterla. Franco guardò la maestra Berti come un giovane leone guarda un vecchio licaone che vuol togliergli la preda e non si mosse di un passo. Fu assalito da un paio di bidelle prestanti, da qualche maestra più coraggiosa e, mentre le nostre insegnanti ci spingevano in classe, era ancora lì, in mezzo a quel mucchio di donne, che mulinava cazzotti e tirava morsi e moccoli per liberarsi.
Non parlammo di altro per giorni. Franco Galletti sparì e cominciò a circolare la voce – alimentata dalle maestre e dalle mamme per incuterci paura – che fosse stato portato in riformatorio, anzi in correzionale, dove viveva più o meno incatenato a pane e acqua. Che era stato espulso da tutte le scuole d’Italia e che non sarebbe più ritornato nella nostra, anzi, che non sarebbe più tornato a Marciana Marina.
Poi si diffuse una leggenda probabilmente inventata da qualcuno di noi che aveva visto troppi film di guerra al cinema: Franco Galletti era tenuto prigioniero a bordo di una nave correzionale al largo di Livorno, una vecchia nave, americana o tedesca, della Seconda Guerra Mondiale, ormai completamente ricoperta di ruggine, una fredda galera di ferro dove i bimbi più cattivi venivano costretti ai lavori forzati e dormivano sul pavimento in celle salmastre, senza oblò per paura che riuscissero a sgusciarne fuori.
Quella nave del nostro spavento sarebbe stata una delle luci che si vedevano lontanissime sul mare nelle notti chiare e senza luna spazzate dalla tramontana. E nemmeno i pescatori si potevano avvicinare a quella galera di ruggine ancorata con catene gigantesche a un fondale profondissimo, perché era pattugliata da mercenari della Legione Straniera che sparavano a vista.
Franco Galletti ricomparve l’anno dopo, tornò a frequentare di malavoglia la scuola come se niente fosse e noi tornammo ad andare a vedere la televisione da Imperia, Non ci disse mai dove era stato in quell’anno di esilio e noi non avevamo il coraggio di chiederglielo. Lui non fece nulla per smentire la cupa leggenda della sua prigionia, noi non facemmo nulla per rinunciare a una favola nera che ci eravamo raccontati e che presto avremmo scordato.
Cosa era successo Franco non me lo disse mai nemmeno quando i nostri giochi di bimbi si trasformarono in amicizia così fraterna da dividersi persino qualche amore di ragazza.
Solo una volta, quando avremmo avuto più o meno 18 anni, Franco mi accennò a un periodo passato da bimbetto da un suo perente in continente. Forse la nave dei nostri incubi era in realtà ancorata lì e il mitico correzionale non era mai esistito.
Ma fu l’unico accenno che facemmo mai alla sua scomparsa e potrebbe essere anche non vero: ci eravamo presi una sbronza così potente di Alpestre che Mofardini ci venne a raccattare con la sua 500 rosa nel campo dietro l’officina/garage di Agostino Boncuore, per portarci alle nostre case, dove ci risvegliammo un paio di giorni dopo.
Quell’incubo del mio amico perduto potrei averlo cancellato con un sogno.
Umberto Mazzantini