“Lasciatemelo aggiungere: non sono una novizia di bellissime isole. Non ho perso testa e cuore per la Toscana senza aver conosciuto Ceylon, e Bali, la Sicilia, Ischia e la nostra isola di Wight. Sono sbarcata a Talang-Talang, nel Mare Cinese meridionale, in mezzo alle tartarughe, e ho mangiato, sulla sabbia bianca, le loro uova grandi come palline da ping pong; come una bambina ho guardato gli uccelli con l'uomo dalla barba bianca, il re di Lundy Island, il cui nome era, pensai appropriatamente, Paradiso; ho vissuto a Kulangsu, al largo della costa meridionale cinese, e su isole così grandi da far fatica a circumnavigarle (come le vere isole sono) quali Borneo, Giava e la nostra Inghilterra. Sono, in una parola, un'esperta isolana. Ma per me nessuna – eccetto il Giglio – può competere con l'Elba che conobbi un maggio”.
Alla metà degli anni '50 giunge all'Elba una viaggiatrice inglese. Sulla cinquantina, molto colta e, pare, anche molto bella. Apparteneva alla piccola aristocrazia e aveva due matrimoni alle spalle, vedova di entrambi. Aveva scritto anche qualche romanzo, non certo memorabile, e saggi. Fin da subito stringe un bellissimo rapporto con gli elbani, e vive un autentico colpo di fulmine con l'isola. E come tutti gli amori, vuole viverlo nei suoi aspetti più intimi. Inizia così a fissare su carta tutta la sua esperienza isolana. Ma a differenza dei visitatori passati non si limita a semplici impressioni di viaggio. Vuole scoprire ogni aspetto segreto dell'oggetto dei suoi desideri: si spingerà a consultare ogni tipo di documento, arrivando persino all'archivio di stato spagnolo di Simancas, compulsando testi in un italiano spesso ostico anche per un madrelingua.
Lei si chiama Averil McKenzie-Grieve. E il suo lavoro verrà dato alle stampe nel 1964 dall'editore Jonathan Cape, di Londra, con il titolo “Aspects of Elba”. Il libro, oggi difficilmente reperibile e mai tradotto in italiano, mi è tornato alle mani nei giorni di quarantena, e la sua rilettura è stata appassionante. Riporta a un'Elba ormai perduta, preturistica, non ancora sotto gli effetti del genocidio antropologico intuito da Pasolini. Averil la riporta perfettamente. D'altra parte, come dirà nel primo capitolo, la sua bussola sono le evocative “Relazioni” settecentesche, soprattutto quella di Coresi del Bruno, così ricca di “dettagli e statistiche di ogni villaggio dell'isola, con in più il resoconto su Marciana, dove le mura delle case formano una fortezza e ciò che la chiesa di Marciana serba: <All'interno della chiesa i muri odorano di violette>” (pag. 16). Ma a differenza degli estensori di quei documenti, Averil ha una dote in più nel raccontare: “Fortunatamente io sono libera da restrizioni: non ho padroni da compiacere, il mio piacere è il mio ricordo” (pag. 18).
Averil dedica il libro a Franca Birindelli Teghini, un'amica conosciuta a Lucca, nel 1952, che possedeva un cascinale nella campagna longonese, affidato in mezzadria a Lidia Guglielmi. Sarà Franca infatti a consigliare ad Averil una visita all'Elba, mettendole a disposizione la sua casa, che la scrittice inglese definirà “il suo petit royaume sotto la croce di ferro”. È questo il primo approccio con l'isola e soprattutto i suoi abitanti: in diverse belle pagine affiora l'affetto che si instaura tra Averil e Lidia e la sua famiglia. Franca sarà l'unica che non lascerà cadere nell'oblio l'esperienza elbana dell'amica: le dedicherà ben tre articoli su “lo Scoglio”, sui numeri 18-19-20. Soprattutto il primo (estate 1988) è interessante per capire l'avvicinamento della scrittrice inglese alla nostra isola. Concordo con Franca quando dice che il libro non ebbe la giusta fortuna che meritava. E secondo me non sarebbe una cattiva idea che un editore e un buon traduttore lo riportassero fuori dall'oblio dopo 60 anni per offrirlo agli elbani e gigliesi. Che così vedrebbero riemergere dal passato figure di compaesani per troppo tempo ristrette a pochissimi lettori.
Gran parte dell'opera è una storia dell'Elba, con qualche imprecisione ma con molti spunti interessanti. È soprattutto lo stile che colpisce: Averil racconta la storia a volte come un romanzo, con episodi resi vividamente, a tratti lasciandosi andare a un po' di artificio, a tratti mantenendo il rigore documentario. Cade anche in qualche misunderstanding, perdonabile data la difficoltà di tradurre termini arcaici italiani. È il caso di “pesca alla Razzuola”: la rezzuola era un tipo di rete del passato, e spesso si trova citata in disposizioni degli antichi statuti comunali isolani, che regolavano questo tipo di pesca. Ma essendo scritto in maiuscolo Averil pensa che sia una località: “Dov'era la Razzuola dove andavano a pescare?, chiesi al cavalier Berti, che aveva passato la sua lunga vita al servizio della sua isola. Suppose che fosse un'insenatura di punta Calamita, il cui nome era stato cambiato o dimenticato” (pag. 44).
L'autrice è soprattutto affascinata dalla figura di Cosimo de' Medici, a cui dedica un capitolo e svariate pagine, e pochissimo dai principi di Piombino. Anzi per gli Appiani mostra poca simpatia e in alcuni casi quasi disprezzo: “Li trovo, con una eccezione, irritantemente incapaci e privi di fascino; tuttavia furono tenacemente attaccati all'Elba e ai suoi documenti, e io li includo nella compassione che si prova per ogni staterello costretto al ruolo di pedina nel grande gioco politico delle potenze” (pag. 60). Averil seguiva una scuola di pensiero, tipica della divulgazione storica dell'epoca, che vedeva a torto il periodo appianeo con le stesse opinioni, e non nella sua complessità e, al contrario, di grande interesse e fascino quale in effetti è.
E Napoleone? Negli anni in cui la viaggiatrice visitò l'Elba, l'isola era in piena sbornia napoleonica, con un'insistente reclame turistica che associava il marchio dell'illustre esiliato a qualunque cosa, a proposito o sproposito, per accalappiare vacanzieri internazionali. L'incipit del capitolo intitolato N è questo: “Quando decisi di scrivere sull'Elba mi imposi che non avrei scritto niente su Napoleone” (pag. 179). Invece Averil cede di fronte una pagina storica che, volenti o nolenti, non si può obliare. E lo fa con lo stesso stile sapido dei capitoli precedenti. Ma si capisce dalla freddezza che il personaggio non la fa palpitare con lo stesso calore di Cosimo.
Tutti i capitoli storici sono inframezzati da spaccati di vita comune e impressioni personali, che restituiscono l'Elba genuina di quel dopoguerra. Averil assapora tutto: dalle impressioni botaniche al contadino che torna dalla campagna, dalle luci tremolanti di Capoliveri alla cura degli animali domestici, dalla spremitura dell'uva al vento che agita il mare. Parla con tutti, vuole conoscere ogni mistero dell'isola dalla viva voce degli indigeni, apprende qualcosa da ognuno, sia esso pescatore, contadino, giornalista o studioso. 200 e più pagine che ti fanno immergere in una scena dopo l'altra in rapida successione.
Tra cui l'isola del Giglio, l'altro amore di Averil, che talvolta inglesizza in Island of the Lily. Le dedica due capitoli traboccanti simpatia per i gigliesi: “Certamente non potrei mai ripagare in denaro i miei amici del Giglio per la loro ospitalità” (pag. 125). Anche Montecristo la affascina, ma non riuscirà a metterci piede. Ma i capitoli che riguardano questa e le altre isole dell'arcipelago sono meno caldi: queste sì sembrano classiche impressioni di viaggio. L'unica concessione sull'isola resa famosa da Dumas è questa, nel tipico humour della sua terra: “Angiolino è stato là per motivi di caccia, ma tutto ciò che lo impressionò fu la taglia di un ratto che strisciava sopra i suoi calzoni mentre dormiva: <Grosso come un coniglio, giuro!> Il ratto o coniglio ingrossava a ogni pranzo festivo” (pag. 204).
L'ultimo capitolo è dedicato al più classico dei quadretti elbani del passato: la vendemmia. Il titolo è semplicemente “Vintage”. E forse Averil non lo sceglie a caso, con il suo duplice significato: vendemmia, appunto, oltreché nel senso, ormai entrato anche nel gergo comune italiano, di qualcosa dal gusto antico. Sconsolato finale di quella sensazione che ci accompagna per tutto il libro, cioè che l'autrice ha la piena consapevolezza di raccontare una Arcadia che di lì a poco si dissolverà.
La sensazione è ben espressa da un brano, piuttosto lungo e di cui riportiamo solo l'inizio, a pag. 25. Il giornalista Mario Bitossi dice all'autrice che l'Elba e soprattutto le sue nuove generazioni sono inesorabilmente avviate verso il turismo. E Averil annota: “Non posso sopportarlo. Scoprivo di vedere l'Elba come, ahimè, molti giovani elbani volevano vederla: ogni superba baia con il suo solitario splendore profanata da non uno ma molti bar placcati di cromo, ciascuno con il suo juke-box eternamente in funzione; le sue scogliere e rupi segnate da alte strade, larghe abbastanza per i continui passaggi di torpedoni (con accompagnamento radiofonico); i suoi promontori cementificati in parcheggi; le greggi di affascinanti turisti a cui loro stessi si promettono amorevolmente. Ma peggio di tutto era contemplare che genere di persone il turismo produce: venduti alla dipendenza dei forestieri, impegnati a piacere a tutti i costi, per estorcere denaro e ancora più denaro per ancora più 'attrazioni', in un misto di servilismo e insolenza”. Forse è un tantino più cupo della realtà. Ma va dato atto all'autrice che è espresso con il cuore di una sincera innamorata dell'Elba.
Andrea Galassi