Il babbo doveva avere una passione per la Grecia antica se battezzò i figli uno Aristide, rovesciatore di tiranni ed eroe della battaglia di Maratona dove i greci sconfissero i persiani, e l’altro Aristodemo, come una sfilza di tiranni, guerrieri, pittori, poeti e filosofi, anche se il secondo dei Capretti – come furono chiamati sempre dai marinesi nonostante i loro nomi da libro di storia – preferì sempre la poesia e la filosofia, e il vino, alla spada.
I Capretti erano, insieme a Mancianino, grandi amici del mi’ babbo veleno, e quando venivano a trovare i parenti a San Francesco non mancavano mai di fare un salto da noi. Aristide era un gran lavoratore, un uomo solido come la terra, Aristodemo declamava la Divina Commedia nei bar e, quando il vino gli scioglieva la lingua, era capace di tagliare e cucire i panni addosso a tutti.
In paese chi lo ricorda lo rammenta soprattutto per un episodio successo al bar Atlantic quando Aristodemo era riuscito perfino a far perdere la pazienza a quel sant’uomo di Aldo con una concione interminabile. Arrivò in uniforme il Maresciallo Viti e fece un cazziatone ad Aristodemo, dicendo che era ora che la finisse e che se ne andasse finalmente a letto. Capretto lo ascoltava capo basso, ed uscì contrito dal bar per avviarsi, con uno slalom spericolato tra i pilastri di granito, in via della Fossa. Quando tutti pensavano che ormai fosse già per la strada di casa al Toro, mentre Aldo, il Maresciallo e parecchi clienti tiravano un sospiro di sollievo nell’aria fumosa delll’Atlantic, Aristodemo fece capolino dalla porta del Bar, gelando l’eterno fischio muto di Aldo, e disse beffardo all’esterrefatto Viti: «Maresciallo, si è dimenticato di dirmi a che ora mi devo alza’ domattina». Vinta la sorpresa il carabiniere tentò di acciuffarlo ma Capretto, stavolta facendo onore al suo soprannome, era già balzato lontano.
Tutti lo ricordano per questo sberleffo al potere impersonato dal carabiniere, ma Aristodemo era molto di più: la prima volta che ho sentito dire la frase «Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me» è stato lui a dirla, buttandola lì, sapendo di dare perle ai porci, mentre ci spiegava qualcosa sulla vita al bar, con la voce roca impastata dal vino. Solo parecchio tempo dopo ho scoperto che era la "Critica della ragion pratica" di Immanuel Kant.
Aristodemo era uno spirito libero, uno di quelli che vivono la loro vita – solitamente breve – sul filo fra l’incanto della bellezza e la terribile realtà dell’uomo. Un essere umano fragile e irridente, cinicamente innocente, innamorato e spaventato degli esseri umani. Un’anima che cercava nel vino il sollievo da un’arsura che era la vita di un Paese del quale era contemporaneamente spirito indispensabile ed estraneo. Era uno di quelli che i francesi chiamano con una brutta generalizzazione "idiot savant", tipi dei quali abbondava l’Italia del dopoguerra e la Toscana in particolare, ma che non avevano niente di patologico o di "idiot" e molto di sapiente. Come Pietro il Sordo (Pitturino), anarco-comunista, con le mani come zolle di terra e la pelle di cuoio come una vigna appena zappata, che sapeva tutti i nomi dei Papi che Cristo aveva messo e tolto dalla Terra dopo San Pietro, la loro storia e i loro peccati. Un Bertoldo che quando si apprestava a parlare con uno che aveva fatto almeno le scuole medie lo apostrofava così: «Di’ un po’ 7 deplomi…», e poi gli faceva una domanda sulla storia alla quale non avrebbe saputo rispondere nemmeno un campione del Rischiatutto.
Ma Aristodemo, che era capace di sdraiarsi per strada sotto la pioggia scrosciante ad aspettare che passasse il temporale o la sbornia, e che non disdegnava di parlare del mondo con i ragazzi facendo finta di non vedere i nostri sorrisetti idioti di compatimento, è per me forse quello che più somigliava a un’altra persona geniale che se ne andata troppo presto: Mario Papi. Stesso caustico umorismo, stessa ultima parola, stesso amore per gli ultimi, stessa fame di sapere e stessa passione per tutto quello che era alcoolico. E, se ci pensate, è eccezionale che in un Paese piccolo come La Marina nascano, insieme a scrittori, poeti, artisti, nello stesso secolo due geni atipici come Aristodemo e Mario che non lasciano opere ma tracce nelle anime e nei ricordi. Sembra proprio che insieme al salmastro respiriamo qualcosa di speciale, oppure lo succhiamo dalle mammelle delle nostre mamme, sostanza di questo strano popolo meticcio, di questi inquieti rimescolamenti di sangue che siamo.
Nella foto che vedete Aristodemo è di fronte al Cantinone del Catta, all’Atore, davanti a un pullman di turisti ed è sotto un pullman molto più vecchio e scassato di quello che rischiò di morire per colpa del mi’ babbo.
A quel tempo i pullman scendevano in Paese e poi, con una manovra spericolata al Moletto prendevano la via per Poggio e Marciana. Il mi’ babbo, probabilmente anche lui più carico del pullman, e Aristodemo discutevano di qualcosa agli Scali Mazzini, più o meno dove ora c’è il monumento ai Caduti del Mare, e Capretto fece qualcosa che con Veleno era pericolosissimo fare: un apprezzamento sulla scarsa virtù amorosa della mi’ nonna paterna, che allora era già morta forse da 30 anni. La puntata del mi’ babbo, che era un ex pugile, arrivò improvvisa, spietata e diretta su quel fragile amico che fu scaraventato proprio sotto il pullman bianco e rosso che stava arrivando sputando fumo nero. Veleno pensò di aver ammazzato Capretto e anche l’autista del pullman scese, bianco come un cencio, per vedere il morto. Tutti si fermarono a guardare quell’uomo sdraiato a terra, in mezzo alla strada, intero come uno stoccafisso. Ma Capretto si tirò su, ancora indolenzito per la botta e la gropponata ma illeso. Il pullman gli era passato sopra senza toccarlo e lui non lo aveva nemmeno visto perché la puntata di Veleno lo aveva spento con un KO fulminante. Siccome al mi’ babbo era passata la sbornia per lo spavento, per farsi perdonare la rinnocarono e la mi’ mamma trovò’ ancora meno soldi nello scuro da pescatore che il mi’ babbo portava a casa.
Quando Veleno morì, il mi’ fratello Mario era un bimbo di 11 anni e praticamente non aveva conosciuto il mi’ babbo, perso 9 anni in un sanatorio grossetano, non sapeva ancora niente di Capretto e non capiva certo la sua filosofia o i versi della Commedia, eppure fu a lui che passò l’eredità di quella strana amicizia tra un fragile lettore di Dante e un analfabeta forzuto.
Mario aveva per Aristodemo una vera e propria venerazione, probabilmente ci si specchiava, e prese ad accompagnarlo a casa quando il tasso alcoolico aveva superato la sopportazione. Allora Aristodemo, che trovava sempre più scarso auditorio nei bar e vedeva i suoi amici scomparire, da ubriaco aveva cominciato a parlare di poesia e filosofia con i nuovi lampioni che avevano messo lungo Via Vadi, la strada che porta alle Scuole Medie e che attraversa il perimetro tra i bar e il Toro che era diventato il suo sempre più piccolo mondo. Ed era mentre li bagnava la luce maculata di falene di quei lampioni che Marietto lo ascoltava declamare, sotto il cielo stellato di Kant, l’Inferno e il Paradiso e mischiare pensieri di filosofi morti.
Fino a che il canto dei grilli non diventava più forte della sua flebile voce e anche i lampioni erano stanchi.
Umberto Mazzantini