Amleto era un uomo alto, anzi lungo, che, con una barca panciuta, portava le merci da Piombino al porto della Marina, quelle che non venivano scaricate dalla nave della Navigazione Toscana che, depositate sul moletto venivano portate, attraverso la Gretta, che taglia le case tra la piazza e il mare in una scorciatoia provvidenziale, nell’ufficio-magazzino della compagnia in Piazza di sopra.
A portare quelle merci sulle spalle quei sacchi da cento chili l’uno, a volte due alla volta, erano uomini con sveltezza di passi da cinese e una forza da mulo ormai scomparsa, come Cappellone e il mi’ babbo Veleno.
E’ probabilmente così, grazie alle spalle del mi’ babbo, che ho conosciuto Amleto, con il suo nome shakespeariano che tutti storpiavano in Ameleto per l’incapacità dei marinesi – in questo toscani - pronunciare parole che si chiudono con una consonate: pullmane per pullman, bare per bar, albume per album e blecche per black, il colore nero in americano che dette il nome al petrolio denso e vischioso che per anni infestò i sassi della spiaggia della marina i nostri piedi, i nostri costumi da bagno e la disperazione delle nostre mamme.
Infatti, il mi’ babbo scaricava anche la barca panciuta di Ameleto per portare sacchi di merce fino alla villa del Vannoni che sorgeva, custodita da due anziane sorelle, proprio di fronte all’Atore del porto e a dove ora c’è il distributore di benzina che fu di Remo Adriani. Un palazzo signorile, costruito dall’ingegnere che venne a curare Marciana Marina, con briglie ciclopiche e muraglioni giganteschi, dalle ferite profonde dei due alluvioni micidiali del 1899 e del 1907 che si portarono via il cimitero e un pezzo di un palazzo della piazza di sotto, dove ora c’è l’orologio e il monumento ai caduti, che allora era affacciato sull’uviale non ancora tombato. Le bare dei marinesi le trovarono fino a Capraia e i pescatori continuarono a pescarle per settimane nel mare ormai pacificato.
La grande sala liberty a pianoterra, ornata di stemmi, che credo fossero quello delle province italiane, e dalla quale partiva una scala da film americano, dominata da una statua, era stata in parte trasformata in magazzino, ma ospitò anche, per la gioia e meraviglia di noi tutti, il primo autoscontro mai arrivato alla Marina e a ogni botta ci sembrava di sentire il rumore della modernità finalmente arrivata. Dietro la villa, di fronte al cimitero e dove fino a pochi anni prima c’era il campo da calcio che sarebbe stato sostituito dalla fabbrica del pesce, c’era un giardino circondato da un muro, con un’enorme magnolia e alberi da frutta che saccheggiavamo scavalcando il muro prima che le vecchie sorelle potessero assaggiare un’albicocca. Quella magica villa istoriata di stemmi venne presto abbattuta per farci un condominio ornato di bar e botteghe, e i nuovi ristorante di Sauro e cantinone del Catta e rivive come un fantasma dimenticato solo in alcune fotografie stinte dal tempo, che non rendono giustizia alla sua strana bellezza.
Ma torniamo ad Amleto, che se allora ci fossero stati i bastoncini Findus lo avrebbero preso per fare la pubblicità del capitano a Carosello. Amleto parlava poco, niente con noi che ronzavamo intorno alla sua barca importuni come tafani, ma aveva un figlio alto quasi quanto lui che aveva un sorriso da eterno buongiorno e che ruzzava con i ragazzetti non avendo ancora dimenticato di esserlo stato. Amleto aveva anche qualcosa che ci attraeva come una calamita: un macaco, probabilmente una scimmia di Gibilterra o del nord Africa, legato con una catenella alla murata della barca, che ci guardava con occhi implacabili e cattivi e un ghigno criminale, ma al quale il figliolo di Amleto aveva insegnato a masturbarsi a comando e che ci mostrava senza nessuna vergogna il suo minuscolo sesso rosso, eretto e fine come un fiammifero.
Cominciavamo a interessarci dei misteri del sesso e lo facevamo bevendo come verità le fesserie sulle femmine che ci propinavano quelli più grandi di noi. Poi scoprimmo dove si andavano a baciare le coppiette: dietro il muraglione del porto, al buio, addossate al muro, col rischio di pestare quel che avevano lasciato per terra i pescatori e mezzo paese, che tanto poi lo lavava la prima mareggiata.
Ci eravamo attrezzati: avevamo rubato a qualcuno un grosso flash, ci riempivamo le tasche di sassetti e schiglie di cemento che prelevavamo direttamente dal muraglione del porto, mentre di notte camminavamo silenziosi a piedi scalzi, in bilico sull’ultimo "salto" e ci sembrava di essere quasi tra le stelle e il mare. Poi, appena sentivamo qualche sospiro e parolina dolce, stesi sulla pancia in bilico sul vuoto, accendevamo il flash come un faro illuminando la sfortunata e svergognata coppia e bombardavamo gli abbacinati fidanzati con tutto quel che avevamo raccolto sul muraglione mangiato dal salmastro.
Un gioco crudele da gelosi, solo per sentire la paura delle ragazze e le maledizioni e le minacce dei ragazzi che si baciavano, che il figliolo di Ameleto scoprì presto dicendoci che eravamo una banda di fessi e ci propose qualcosa di irrinunciabile: «Se la smettete vi faccio vedere le puppe di una donna».
Era un bel ragazzo e, appena arrivato lo avevamo visto baciarsi con una ragazzona alta alta e florida che sembra la Giunone, la moglie di Giove, che era disegnata sulle pagine del nostro sussidiario, però molto meno vestita. Il figliolo di Amleto ci dette appuntamento al tramonto, mentre il sole infiammava già la Capraia, e noi ci facemmo trovare più che pronti proprio in cima al muraglione dove bombardavamo gli innamorati. Lui si presentò con la ragazzona sorridente per la mano e si calarono a fare l’amore in uno dei buchi che si aprivano nei massi quadrati neri, di ghiaino e cemento, che erano a difesa del porto prima di venire ricoperti dai tetrapodi che ora sono ammucchiati e incastrati dietro la diga. Poi dal buco tra i massi volò fuori quello che era senza dubbio un reggipetto a fiori e poi, meraviglia delle meraviglie, un paio di mutandine che ci sembrarono il più bello dei fiori di campo, seguite – per qualche brevissimo, interminabile e conturbante secondo - dalla ragazza sorridente e scarmigliata che ci faceva ciao con la mano e con un paio di puppe bianche all’aria che per anni restarono per noi lo spettacolo più bello mai visto.
Mantenemmo la promessa e smettemmo di importunare gli amanti segreti marinesi, ma fu allora che qualcuno di noi cominciò a fare come la scimmia di Ameleto, sognando le puppe della sconosciuta ragazza inglese.
Forse la stessa estate, o quella dopo, arrivarono a rovinarci definitivamente due ragazze olandesi che stavano all’Hotel Imperia di Agostino Romano e poi di Lino. Facevano due passi ed erano subito nel mare trasparente del Moletto che era il nostro regno di ciuttate e giochi crudeli. Le due olandesine erano bionde, con gli occhi azzurri, con un’abbronzatura color pesca, simpatiche e storpiavano l’italiano così bene che ce ne innamorammo subito in massa. E soprattutto fecero una cosa che le ragazze italiane – turiste e marinesi - non facevano mai con noi: ci dettero confidenza e diventarono divertite compagne dei giochi acquatici di quei per loro esotici bimbetti. Arrivarono persino a faci passare sotto le loro gambe durante le immersioni subacque, mettendosi in fila con noi per vedere chi arrivava più lontano e, mentre ne approfittavamo per strusciarci a quelle morbide cosce straniere, vedevamo un panorama sottomarino che era molto meglio di quello davanti agli scogli del Cotone dove andavamo a caccia di dragane in immersioni senza fiato.
Eravamo innamorati persi, ma le olandesine ci tradirono: arrivarono due ragazzi belli e alti – mi sembra francesi – che piantarono la tenda nella pineta vicino al Tirassegno, allora già semidiroccato, dove viveva Ciuci tra un’uscita e un’entrata di galera e l’altra, le due biondine presero a frequentarli e a trascurarci, relegandoci a qualche frettoloso sorriso e a qualche spruzzo in mare.
Poi venne il mi’ cugino Krusciov e ci rivelo che le fedifraghe olandesi facevano l’amore in pineta con i francesi e decidemmo, per invidia e per vendetta, di andarle a spiare.
Partimmo in una notte di luna piena risalendo la stradina che portava alla casa del Chiari e poi silenziosi passammo accanto al Tirassegno per non svegliare Ciuci – dal quale i nostri babbi ci avevano detto di stare alla larga – e, poco distante, tra i pini trovammo, guidati dai sussurri e dal rumore liquido dei baci, le due ragazze che facevano davvero l’amore con i due ragazzi. Una coppia era proprio davanti a dove ci eravamo nascosti tra i mucchi marini appiccicosi, sdraiata in una pozza lattata di luce lunare.
Poi i due ragazzi, fatto quel che noi tentavamo di immaginare dai loro movimenti intrecciati, si placarono e sembrarono addormentarsi beatamente l’uno sull’altra, immuni alle zanzare che ci martoriavano nel nostro nascondiglio di guardoni.
Fu allora che a Krusciov venne un’idea folle: «Gliela voglio vede’» e mentre noi gli sussurravamo imploranti di non farlo, si incamminò quatto quatto e silenzioso sul letto di aghi di pino e, raggiunta la coppia, cercò di sollevare per un piede la gamba che il ragazzo teneva tra le gambe dell’olandesina. Ma il francese lo aspettava e si alzò di scatto cominciando a inseguirlo, noi ci lanciammo in fila urlanti e moccolanti, facendocela addosso per la fifa lungo lo stretto sentiero tra le ginestre spinose e in fondo, con alle calcagna il ragazzo, rimasero Angelo Chiaravalle e Krusciov che urlava ad Angelo di lasciargli il passo mentre Chiaravalle non ci pensava nemmeno. Il giovane amante importunato correva forte e sembrava venire dalla nostra stessa scuola selvatica, dopo poco acciuffò Krusciov per la collottola, lo sollevò sgambettante per il mento e, insultandolo in una lingua sconosciuta, lo schiaffeggiò diverse volte.
Noi intanto ce l’eravamo data coraggiosamente a gambe lasciando il mi’ cugino al suo destino.
Ma Krusciov ce l’aveva soprattutto con Angelo che, per un suo strano ragionamento, avrebbe dovuto prendersi la punizione per una stupidaggine che aveva fatto lui. Krusciov picchiava sodo e Angelo lo sapeva bene, quindi tentò di far sbollire la rabbia del mi’ cugino autoconsegnandosi, nonostante l’estate e i tuffi, nella casa dove stava allora con la su’ mamma Stella, tra la chiostra accanto al Moletto e la Gretta. Ma quando dopo una settimana tirò il capo fuori di casa trovò Krusciov inesorabile ad aspettarlo con la sua vendetta.
L’amicizia delle olandesine si trasformò in schifo per noi traditori in pantaloni corti della loro fiducia, la barca di Ameleto salpò e un giorno ritornò con a bordo solo il figliolo che per un po’ continuò, sempre allegro, i traffici paterni, ma crescevamo troppo in fretta perché potesse riconoscere in noi gli ammiratori di tette. Le ragazze e i baci cominciarono a diventare reali, ma una cosa non l’abbiamo mai saputa: Krusciov gliela aveva vista all’olandesina?
Umberto Mazzantini